Mafia, archiviazione respinta per Ciancio Indagati trent’anni di informazione etnea

La Procura di Catania smentita ancora una volta. Dopo i fratelli Raffaele e Angelo Lombardo e il senatore Fli Nino Strano, stavolta tocca all’imprenditore-editore catanese Mario Ciancio, 80 anni, vedere non accolta da parte del giudice etneo la richiesta di archiviazione avanzata dai magistrati per una indagine sul suo conto. Quattro accuse di concorso esterno in associazione mafiosa, quattro richieste di archiviazione, quattro rifiuti da parte dello stesso giudice per le indagini preliminari: Luigi Barone. Una decisione che, nel caso del governatore regionale dimissionario e del fratello deputato nazionale Mpa, ha portato all’imputazione coatta. Per conoscere il destino dell’indagine a suo carico, l’editore-direttore del quotidiano catanese La Sicilia dovrà invece attendere l’udienza già fissata da Barone.

La richiesta di archiviazione dei magistrati etnei risale a maggio di quest’anno. Tre anni dopo l’iscrizione nel registro degli indagati, a marzo 2009, di uno degli uomini più potenti di Catania, con interessi sia nell’editoria – locale e nazionale – che nell’edilizia. Una notizia divulgata solo un anno dopo, a novembre 2010, con un articolo de Il Fatto Quotidiano a firma di Valter Rizzo e Antonio Condorelli. E confermata con una nota dalla stessa Procura «per evitare silenzi che verrebbero bollati come imbarazzate reticenze». Al centro dell’indagine, la costruzione del centro commerciale La Rinascente-Auchan vicino all’aeroporto etneo, nei pressi del quartiere Librino. «Al quale era tra gli altri interessato anche Mario Ciancio», spiegano i magistrati. E, tra gli altri, ipotizzavano, anche alcuni esponenti criminali e presunti tali. A occuparsi della costruzione sarà la ditta dei fratelli Basilotta, considerata dai magistrati vicina a Cosa Nostra e oggi tra le carte del processo Iblis e del suo stralcio sui Lombardo.

Nell’indagine etnea non mancano nemmeno dichiarazioni come quelle di Massimo Ciancimino – figlio dell’ex sindaco mafioso di Palermo don Vito, vicino a Bernardo Provenzano – ed episodi e racconti che hanno fatto un pezzo della storia dell’informazione a Catania. Dalla mancata pubblicazione, da parte de La Sicilia, dei necrologi del giornalista Giuseppe Fava e del commissario di Polizia Beppe Montana – uccisi dalla mafia rispettivamente nel 1984 e ’85 – agli scritti, privi di contestualizzazione sui personaggi, riguardanti Angelo Ercolano, incensurato nipote del boss Pippo Ercolano, e Vincenzo Santapaola, figlio del boss etneo Nitto.

Ma gli elementi a disposizione della Procura etnea risalgono anche a più in là nel tempo. Come quando Pippo Ercolano, che non aveva gradito un articolo de La Sicilia in cui lo si definiva mafioso, andò a fare una scenata in redazione. Ciancio, non presente, avrebbe saputo, racconta il collaboratore di giustizia Angelo Siino che accompagnava il boss. E invece sarebbe stato lo stesso editore-direttore, al chiuso del suo ufficio e in presenza di Ercolano, a sgridare il cronista responsabile secondo quanto riportato in diverse ordinanze del processo Orsa Maggiore firmate dal gip Antonino Ferrara. Ciancio avrebbe anche invitato il giornalista «a non attribuire l’appellativo di boss mafioso all’Ercolano e agli altri componenti della sua famiglia – si legge nel documento – anche se tali affermazioni provenissero da fonti della Polizia o dei Carabinieri». Atteggiamento che ha fatto definire l’editore etneo da Siino come un uomo «a disposizione» di Cosa Nostra.

All’attenzione dei magistrati, infine, anche alcuni articoli de La Sicilia pubblicati durante le indagini per l’omicidio del giornalista Giuseppe Fava. Come ricostruiva un dossier de I Siciliani Nuovi, era il 1994 e il quotidiano etneo informava che il pentito Maurizio Avola si era autoaccusato non solo di aver ucciso il cronista catanese ma anche il generale  Carlo Alberto Dalla Chiesa. Troppo giovane e alle prime armi per il secondo omicidio, avvertiva il quotidiano etneo, avanzando poco velati dubbi sulla sua credibilità. Ma Avola non aveva mai parlato di Dalla Chiesa, sottolineava il sostituto procuratore Amedeo Bertone, temendo un tentativo di screditare il pentito e depistare le indagini: «Quello che è avvenuto non è stato casuale. Chi pubblicava sapeva perfettamente, per essere stato avvertito proprio da noi, che si trattava di cose false». Eppure, nei giorni successivi, La Sicilia continuò. E non era la prima volta che il quotidiano cittadino aveva uno scivolone trattando di collaboratori. Già nel 1984, pochi mesi dopo il delitto Fava, il giornale anticipò le dichiarazioni che il pentito Luciano Grasso avrebbe dovuto rendere ai magistrati. Oltre alla sua foto, venne pubblicato anche il suo indirizzo di casa. L’indomani, raccontava il mensile I Siciliani di quell’anno, Grasso dirà ai magistrati di avere paura per la sua incolumità.

«Quanto alla presunta indagine penale, se davvero esistente, ne attendo fiducioso l’esito», dichiarava Mario Ciancio all’indomani delle notizie sulla sua iscrizione al registro degli indagati. Adesso, dopo il sospiro di sollievo tirato con la richiesta d’archiviazione da parte dei magistrati catanesi, il non accoglimento del giudice Barone porta a una nuova attesa. Fino alla prossima udienza e, soprattutto, fino alla sua decisione finale: un’archiviazione rimandata, ulteriori indagini sull’editore e i suoi presunti rapporti oppure un’imputazione coatta e l’inizio di un processo.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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