Ludmilla Bengasi, seconda parte La morte e la maledizione su Serbottana

Ma dicevamo della sua morte: ella usualmente si ritirava nelle sue stanze dopo l’imbrunire: stanze grigie, badate, stanze piene d’immagini sacre, cerini e pizzi; stanze nelle quali la luce pareva entrare con un certo disagio, quasi a non voler disturbare: v’era un salotto arredato con un possente mobilio, ma spento nel suo insieme, delle vetrinette, colme di ninnoli e ceramiche, che rimandavano a epoche passate, e il divano stesso, in seta rossa, recava l’impressione di un ventre di balena.

La cucina, il bagno, la camera da letto, il doppio servizio, erano dei locali dei quali ci si dimenticava un attimo dopo averli scorti. Il salotto, d’altronde, si ficcava nei ricordi come una punta di spillo, lasciando i residui di una profonda tristezza in chi vi aveva trascorso delle ore.

La signorina Bengasi non prendeva facilmente parte alle discussioni, interveniva poco frequentemente, e soltanto quando la sua opinione era ritenuta indispensabile per il prosieguo del discorso.

Quando prendeva parola, però, v’era come un’eco in ciò che s’udiva; gli ospiti andavano via ancora con un qualcosa di lontano che pure giungeva alle orecchie, come se avessero sentito una nenia e questa tornasse, ancora e ancora, nel sonno.

Come tornava sovente al pensiero della gente il merigno al balcone; il perché della presenza di questo volatile non era dato sapere; da un giorno all’altro era spuntato un gabbione con dentro questa specie di vedetta notturna, la quale possedeva uno sguardo simile a quello della sua proprietaria, apriva gli occhi quando ella li chiudeva, e vigilava su tutto, guardingo.

Tutti i movimenti del suo essere erano fulminei, e la postura realmente regale, ma, a volte, il sopraggiungere di alcune persone provocava in lui una reazione insolita: s’arruffava e quasi fischiava a mo’ di felino, se provava avversione nei confronti di nuovi visitatori; e il suo piumaggio diveniva di un indecifrabile azzurro, d’un acceso riflesso lunare.

Il giorno in cui la signorina Bengasi riceveva era il venerdì; per quanto concerneva il resto della settimana le visite venivano considerate scocciature.

Chi si recava dall’autorevole padrona di casa, si preparava per ore ed ore nel tentativo d’indossare un indumento che potesse essere apprezzato, in più di una circostanza, infatti, un ospite aveva avuto la sensazione di dispiacere alla signorina per il solo fatto di avere una camicia particolarmente vivace o dei pantaloni un tantino lunghi.

I giudizi non erano mai esplicitati verbalmente, ma bastava una smorfia della temuta interlocutrice per comprendere che la giornata si sarebbe risolta negativamente.

L’autorità morale di Ludmilla Bengasi, il suo gusto estetico, finanche le sue posizioni politiche, che ella in verità esprimeva assai raramente, erano tenute in grande considerazione dalla comunità, e una sua opinione poteva influire sulla sua vita stessa.

Un venerdì, ad esempio, si recò da lei la signora Pennacchi, la quale, a cauta distanza dal marito, stava vivendo una seconda giovinezza: l’incarnato della sua pelle s’era rifatto roseo, la gestualità più tenera e dolce.

Ma ella intimamente sentiva come Ludmilla Bengasi non approvasse tutto ciò, se ne accorgeva ogniqualvolta passeggiava per la strada principale e sentiva piombare su di sé il suo sguardo contrariato; cosicché preferiva percorrere le vie secondarie, lì dove v’era solo lo squittio dei bambini che giocavano a rincorrersi; insomma la Pennacchi, pur avendo ritrovato una risata fresca e gioviale, non aveva la forza di farle visita.

L’ingegner Pimpolini, per una frase pungente della signorina, s’era ammalato di malinconia e, assai rincoglionito, fissava le stelle ventiquattrore su ventiquattro.

Il droghiere Carrugo, poi, era andato via da un giorno all’altro, dopo una visita alla Bengasi, chiuse i battenti del suo esercizio commerciale e non se ne seppe più nulla.

Tutto ciò portava a credere che, dopo questo funerale, il paese sarebbe rifiorito; e già nei mesi immediatamente successivi l’aria era sensibilmente cambiata, la gente si mostrava allegra e la strada principale s’era riempita di scherzi e canzoni, laddove v’era stato sempre un brusio attento a non urtare la sensibilità della defunta.

Ma si trattava soltanto di un’illusione.

Col tempo il paese ritornò alla sua grigia routine: i gatti impigrivano grassi e le mosche altalenavano i loro tediosissimi ronzii.

Ormai la popolazione non aveva che da rispondere a Dio delle proprie azioni ed Egli era lontano, oltre, troppo oltre, il balcone che s’affacciava sulla strada principale.

Si verificarono misteriosi eventi: Roderigo Berlanzana fu trovato con la gola tagliata in mezzo ai rovi, Camilla Melassi, esangue e con tre pugnali al petto, Ughetto Martinica impiccato alla trave di un magazzino.

Il paese era stato colpito come da una maledizione e s’iniziava a confidare nella scaramanzia.

Il merigno della signorina Bengasi venne lasciato sul balcone che era stato il punto privilegiato d’osservazione della defunta: la gente infatti sentì il bisogno di avere un altro sguardo su di sé, a protezione di tutti.

Del resto le voci assurde continuavano a tenere banco: Licincio Bonetti, il garzone del tabaccaio, giurò di aver visto due scarabei portare via le orbite di Ludmilla Bengasi, facendole rotolare.

Il sindaco, un mattino, non ebbe più il cuore di vedere i suoi compaesani presi nella morsa della paura più nera, e decise di fare un discorso alla cittadinanza per rassicurarla sulle misure prese in seguito agli ultimi accadimenti.

Il giorno del comizio la piazza era gremita, i bambini non rumoreggiavano, ascoltavano tesi il chiacchiericcio degli adulti.

Il sindaco aveva preparato minuziosamente il suo intervento.

Eccovi un breve estratto di ciò che disse.

“Cittadini, è nel buio che si staglia più forte la luce, è nel silenzio che s’ode più forte la parola, è nella disperazione che si fa più forte la speranza; proprio adesso, che più grave è la prova da sopportare, è giusto collaborare, unire le nostre buone volontà per reagire a questa ondata di fatti inspiegabili della cui origine non sappiamo nulla!
E nessuno, dico nessuno, mi venga a dire che si tratti di forze incomprensibili, del maligno che compie le sue atroci azioni a punizione di chissà quali colpe. Tutto ciò è ridicolo e insensato. Noi abbiamo nella ragione la nostra più grande risorsa, nella collaborazione la nostra risposta più efficace a simili mali.

Per cui da domani verranno organizzate ronde che vedranno coinvolte sia le forze di polizia, sia quei cittadini che volontariamente vorranno vigilare. Qualsiasi notizia che abbia radicati fondamenti, non investita quindi dalla smania del sensazionalismo, del fantastico, dell’irreale, sarà vagliata con interesse.

Solo nella nostra comunità si potrà trovare giustizia! Per quanto riguarda invece gli assassini, che si potrebbero trovare anche in questa piazza, dico: consegnatevi! Arriveremo comunque alle vostre malefatte! Non ci arrenderemo facilmente e avrete il vostro, meritatissimo, castigo!”.

Il sindaco aveva concluso; ma ristette per alcuni secondi perché la folla era quasi in apnea. Ma quando s’udì il primo applauso, la gente si scatenò in manifestazioni di giubilo e contentezza.

Anche gli assessori rimasero piacevolmente sorpresi dal cipiglio che il primo cittadino aveva dimostrato e non potevano fare a meno di pensare a quanto sarebbe migliorata la gestione dell’amministrazione pubblica se il sindaco avesse dimostrato lo stesso impeto in merito all’azione politica.

Ma il sindaco Augusto Malcelati era stato sempre un individuo che s’era affidato esclusivamente all’eloquio per portare a realizzazione le proprie ambizioni e, un passo alla volta, era giunto a ricoprire la massima carica del paese di Serbottana.

La quale Serbottana a lui piaceva, e parecchio, era una cittadina mite e non era animata da nessuna grande passione: gli somigliava ed era adatta al suo modo d’intendere il mondo.

[Illustrazione di Francesco Guarino]

Sergio Salamone

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