Long drink/ Gli effetti sociali del ‘caso’ Dell’Utri

Una premessa: non siamo giuristi. Solo giornalisti. E osservatori della realtà. Cioè della vita di ogni giorno. Compresi i processi. Comprese, quindi, le sentenze. A cominciare da quelle pronunciate dalla Cassazione.

Chissà perché ci siamo un po’ abituati ad immaginare i giudici della Suprema Corte come uomini irragiungibili. E in parte questo è anche vero, perché chi arriva ad occupare un posto così importante nella nostra società deve avere delle qualità fuori dal Comune. A parte la preparazione tecnico-giuridica – che va data per scontata – ci riferiamo alle qualità umane. E la prima tra tutte dovrebbe essere l’equilibrio.

Le sentenze della Cassazione, al di là degli aspetti giudirici che lasciamo ai tecnici del diritto, colpiscono, spesso, per l’estrema lucidità e per l’estrema chiarezza con la quale descrivono i fatti. Per questo dà un po’ di fastidio sentire certi politici citare alcune sentenze della Corte di Cassazione per giustificare fatti che non sono né lucidi, né chiari. E magari utilizzano certe sentenze per rendere meno lucidi e meno chiari certi fatti.

Confessiamo, ad esempio, che ci siamo molto divertiti nel leggere la sentenza pronunciata dalla Suprema Corte sul ‘caso’ di Marcello Dell’Utri. I giudici hanno annullato la sentenza di condanna rinviandola alla Corte d’Appello. I teorici dell’ ‘innocentismo’ da predicare sempre e comunque avranno di certo appreso la notizia esultando. Chissà, poi, che faccia avranno fatto leggendo quello che c’era scritto in questo ‘annullamento con rinvio”.

I fatti sono noti e non ci sembra il caso di ripeterli. In pratica, i giudici, nel rinviare il processo in Corte d’Appello, descrivono, per filo e per segno, le responsabilità di Dell’Utri e chiamano in causa anche Silvio Berlusconi. E lo fanno con estrema chiarezza e con estrema lucidità. Citando fatti legati tra loro da un’estrema logicità.

Qualcuno ha visto in questa sentenza della Cassazione un ‘passo’ diverso rispetto alla sentenza che ha assolto dal reato di concorso esterno in associazione mafiosa l’onorevole Calogero Mannino. Secondo noi – ed è un nostro giudizio – le due sentenze si complementano. Mannino è stato assolto in bse al principio secondo il quale il concorso esterno, per essere tale, deve far conseguire ai mafiosi un risultato concreto.

Nel caso di Dell’Utri ciò sarebbe avvenuto. Dell’Utri, secondo la Cassazione, avrebbe esercitato “i poteri d’influenza che gli derivavano dalla precisa collocazione ne mondo imprenditoriale dell’epoca e dai rapporti personali con i vertici di ‘cosa nostra’… conseguendo un risultato concreto, cioè quello dell’esborso, da parte dell’area Fininvest, di somme cospicue…”.

Come si può notare, le due sentenze non sono affatto in contraddizione. La differenza sta nel fatto che la sentenza Mannino continuerà ad essere citata da chi deve difendere un imputato dal concorso esterno in associazione mafiosa. Anche con qualche forzatura.

E’ molto discutibile, ad esempio, che un politico che frequenta abitualmente mafiosi si difenda con la sentenza Mannino. Chi ci assicura – e lo diciamo da cittadini – che la frequentazione, se continua e magari comprovata da accordi elettorali, non configuri “risultati concreti” all’organizzazione a delinquere di tipo mafioso denominata ‘cosa nostra’? Qual è il criterio per definire i “risultati concreti’? E’ solo questione di soldi o ci potrebbe essere dell’altro, magari il potere?

Negli anni ‘70 e negli anni ‘80, quando si era in presenza di politici che intrattenevano rapporti con la mafia – e la Sicilia ne presentava una certa ‘varietà’ nella Dc e anche in altri partiti – per provare ad allontanarli dal mondo del politica si diceva: “Cè un criterio giudiziario e c’è un criterio politico”. Era un modo per dire che non c’era – e non ci sarebbe anche oggi – bisogno di un processo per tenere lontano dal mondo politico certi personaggi: concetto, questo, chiarito molto bene dal giudice Paolo Borsellino.

Oggi – rispetto ad allora – siamo tornati indietro. Se è vero che c’è chi teorizza che intrattenere rapporti con la mafia è quasi lecito, a patto che la mafia non tragga da questo rapporto “risultati concreti”.

Se un’interpretazione superficiale – e anche un po’ sofistica – delle sentenza Mannino ha dato forza a un ragionamento un po’ aberrante, la speranza è che la sentenza Dell’Utri ottenga, sul piano sociale, l’effetto opposto.

 

Diogene Laerzio II

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