Lis cidulis, desideri che si disperdono nell’aria…

Spenti i fuochi epifanici d’inizio anno (il fumo di questi “fogalons” o “pignarui” ha preso la direzione per una buona annata, secondo l’interpretazione data dalla tradizione; e speriamo lo sia davvero per tutto e tutti), il mese di Gennaio vede ancora le vallate delle montagne del Friuli fare da sfondo a consuetudini che sembravano perse con il passare del tempo.

In queste fredde giornate invernali, salendo verso i paesi della Carnia, si può assistere al rituale lancio delle cidulis, che già nello scorso secolo Caterina Percoto aveva consegnato alla memoria delle sue novelle: “Fu accesa la prima girella e balzò dai greppi della montagna, consacrata al parroco del paese; dopo questa fu lanciata la seconda nel nome della più bella ragazza del villaggio, e poi una terza, e poi una quarta e spari di fucile e grida festose le salutavano dal basso, e l’eco fragorosa le ripeteva fin oltre Paluzza”.

Dalla letteratura alla realtà questo rituale vede dar forma ad una tradizione che pare unica in Italia: un rito riservato agli uomini che si svolgeva, un tempo, in varie date, con modalità diverse a seconda delle zone, non solo durante l’ inverno, ma anche in primavera ed estate. Lis cidulis sono delle rotelle di faggio o di abete infuocate, con un foro al centro, dove i ragazzi infilavano un bastone per poterle lanciare con più forza verso la valle, e nel farlo, gridavano il nome della ragazza del paese cui erano interessati. Si trattava dunque di una forma di corteggiamento, di dichiarazione, di future promesse, ma non solo.

Innanzitutto era un rito di passaggio: l’annuncio di un fidanzamento o di un matrimonio al lancio delle cidulis possedeva una valenza “ufficiale”, segnava la nascita di un nuovo nucleo familiare all’interno del paese, del passaggio di una coppia all’età adulta, con nuovi diritti e doveri nella comunità – come spiega un’anziana signora di Còmeglians: “Dopo quel momento non erano più ragazzini e potevano fare quello che decidevano“-.

Inoltre era anche una forma di auspicio, una sorta di rito di divinazione: che il lancio delle cidulis infuocate, e soprattutto la lontananza raggiunta con il lancio, indicassero il realizzarsi del desiderio espresso a gran voce e la sua durata. Perciò in realtà, durante questo rituale, non erano esclusi altri tipi di auguri, da quelli di carattere più generale -” Vada questa in onore e favore dei campi e dei prati, degli orti e delle case di tutto il paese” – a quelli che si prendevano gioco delle ragazze -“Vada questa in onore e salute di Veronica, che non ha cuore ma è dura come la pietra”.

A cosa serve oggi rievocare queste tradizioni? Per le vallate della Carnia, desolate a causa dello spopolamento e della mancanza di lavoro, soprattutto alla speranza di essere rivalorizzata come territorio, non semplicemente a provocare un’invasione curiosa di turisti che si cimentano, un po’ maldestri, al lancio delle cidulis, gridando le cose più disparate. Il turismo è certo una fonte economica utile che non si disprezza, ma in questi luoghi c’è un vero interesse – e lo testimoniano i convegni organizzati – verso l’offerta di qualcosa di più di uno spettacolo: la possibilità di trasmettere la conoscenza e la comprensione del senso profondo delle tradizioni.

O forse sarebbe più corretto dire la “riconsegna” di tradizioni che appartengono da sempre agli uomini, di simboli e vecchie credenze che, a chi le osserva con i telefonini in tasca, sembrano troppo lontane nel tempo, eppure allo stesso modo, sprigionano ancora un fascino irresistibile.

Monica Menegazzo

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