Linguaggio del cinema

Riflettendo sui film che abbiamo analizzato, l’attenzione si è subito soffermata sui luoghi costituenti la scenografia, sul loro potenziale espressivo, nonché sul tipo di funzione che essi mettono in atto. È cosa ovvia che l’ambientazione costituisca una parte importante dello scheletro di un’opera cinematografica, nonché una tra le prime preoccupazioni di ne pone la fatidica prima pietra. Verosimilmente, i casi in cui ci riesce più facile focalizzare l’attenzione sul “milieu” e sulle peculiarità della sua “voce”, sono proprio quelli in cui ciò che normalmentre concepiamo come “voce” non ha modo di esprimersi. È il caso di tutta la prima fase della produzione di Charlie Chaplin, nonché del capolavoro “Tempi Moderni”. Qua, è la realtà degli umili ad essere protagonista, essendo ravvisabile nei luoghi come nei personaggi a cui è affidato il ruolo di rappresentare essa realtà. I luoghi, spesso, sono funzionali alle gag acrobatiche del nostro Charlot; ma, d’altro canto, parlano il linguaggio del degrado e della fame, dando voce a chi, normalmente, non ne ha: la fascia sotterranea della società, i “miserabili”. E’ così che Chaplin tocca le corde emotive degli spettatori; e i suoi film, nel giro di quasi un secolo, hanno commosso fiumane di anime, svelando una visione dolcemente disincantata, genuina ma ben definita ideologicamente. E lo fa toccando, spesso e volentieri, le corde del grottesco e del paradossale. Grottesco per antonomasia è anche uno dei primissimi successi di Stanley Kubrick, ovvero “Il Dottor Stranamore”. Ma, qui, ci si trova sul polo opposto a quello del sincero populismo chapliniano: è la realtà dei capi di stato e dei potenti ad essere rappresentata in tutta la sua crudeltà, sottolineata ed amplificata tramite procedimenti senz’altro innovativi. L’occhio dello spettatore si muove all’interno dei luoghi in cui si decidono le sorti dell’umanità, con l’andatura goffa di chi, verosimilmente, si trova ivi per la prima volta. Gli scenari, così come le situazioni che vi si svolgono, sono gonfiati fino a raggiungere il parossismo. È proprio la visione di questa realtà, trattata attraverso il filtro dell’assurdo, a rendere palese la follia assoluta della guerra, nonché di chi la fa. Kubrick, quindi, rompe i legami con la grande tradizione del Cinema di Guerra, quello in cui il sangue innocente invade costantemente lo schermo: qua, se udiamo colpi di mitra, li udiamo dall’ufficio del folle generale Ripper, e ivi ci lasciamo infettare dalla sua stessa follia (per poi, ovviamente, poterla giustamente criticare). Un altro film, tra quelli analizzati, per il quale è stata strategicamente adoperata la scelta del bianco e nero, è “Simon del deserto”, di Luis Buñuel. È qui che, a mio avviso, il discorso sulla voce dei luoghi viene alla ribalta e trova il suo emblema. I dialoghi in sé, infatti, sono essenziali e mai invadenti, seppur sempre ficcanti ed affilati come lame. Ma è il deserto, con la sua aridità emblematica e metaforica che pervade l’intero film (per poi lasciar dissipare la sua sabbia, nel finale) a parlare il linguaggio dell’anima del protagonista, nel suo vuoto interiore auto-imposto (che è il vero tema del film). Altro film a tematica religiosa è il “Decalogo” di Kieslowski, del quale abbiamo analizzato il sesto episodio. Qui, i cieli plumbei ci parlano del Nord-Europa, ed il suo clima uggioso diviene emblema della solitudine desolata dei protagonisti, allo stesso modo in cui il deserto era metafora della condizione dell’eremita. Gli squallidi interni di appartamenti, dal loro canto, ci parlano delle grigie vite dei personaggi: vite piccole e in disordine come i luoghi che le ospitano. Luoghi che parlano del silenzio dell’anima, meglio di quanto riuscirebbero a fare le parole (che, infatti, sono poche e ben calibrate). Luoghi che non si impongono con prepotenza allo spettatore, ma anzi gli lasciano uno spazio (grigio) da riempire con le sue riflessioni.

Mauro Iemolo

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