«Bisogna cambiare il nome». Non usa mezzi termini Antonello Nicosia, mentre passa in auto davanti all’aeroporto di Palermo intitolato ai giudici Falcone e Borsellino. È l’11 febbraio e seduto di fianco a lui su quell’ennesima auto noleggiata c’è un collega di lavoro. Poche battute tra i due, che restituiscono tutto il «disprezzo», per dirla con gli investigatori, di Nicosia verso quei magistrati che combattono la criminalità organizzata. Ma otto mesi fa lui, insospettabile esponente dei Radicali italiani e direttore generale dell’Osservatorio Internazionale dei Diritti Umani onlus, non immagina nemmeno lontanamente che quella conversazione, come molte altre, è intercettata.
Arrestato questa mattina insieme ad altre quattro persone, è accusato di essere un uomo al soldo a tutti gli effetti della famiglia mafiosa di Sciacca: avrebbe approfittato dei colloqui in carcere per recapitare messaggi e informazioni al boss Accursio Dimino, Matiseddu. Uomo d’onore che avrebbe vantato rapporti con Totò Riina e Giovanni Brusca, ma anche con soggetti ritenuti vicini alla famiglia mafiosa italo-americana dei Gambino. Nicosia, per i magistrati, sarebbe stato «pienamente inserito» nell’organico di quella famiglia. A tal punto che avrebbe più volto incontrato Dimino chiedendo alla cosca interventi violenti per recuperare dei crediti da un uomo inserito nel contesto della criminalità organizzata saccense.
«All’aeroporto bisogna cambiare il nome eh! Bisogna cambiarlo», insiste. Lasciando perplesso il collega che è con lui, che rimane di sasso: «Non va bene Falcone e Borsellino? Dici perché evocano la mafia…», ipotizza a un certo punto. «Ma perché dobbiamo spiegare chi sono, scusami, perché dobbiamo sempre mescolare la stessa merda?», replica per tutta risposta Nicosia, gelando il collega che rimane in silenzio. E il cui turbamento però sembra passare inosservato. Tanto che Nicosia rincara la dose e continua a snocciolare ulteriori esternazioni e considerazioni su quei magistrati che dedicano la vita a lottare contro Cosa nostra. Anzi, proprio quei due in particolare, Falcone e Borsellino, uccisi nelle stragi di Capaci e di via D’Amelio nel ’92.
«Poi non è che è detto che sono vittime … di che cosa? Di … sono incidente sul lavoro, no?». Il collega che lo ascolta è, ancora una volta, interdetto, ammutolito. Balbetta una velata opposizione, ma Nicasio lo incalza. «Ma poi quello là non era manco magistrato quando è stato ammazzato Falcone – dice ancora -. Aveva già un incarico politico. Non esercitava. Scusa, perché non si dovrebbe chiamare Luigi Pirandello o Leonardo Sciascia visto che gli altri si chiamano Leonardo Da Vinci, Marco Polo, eh?». Non cogliendo neppure l’imbarazzo del collega che gli sta a fianco, che a questo punto lo asseconda, tagliando corto. «Eh? E che cazzo va, e che minchia …», lo sfogo conclusivo.
«Le parole offensive di questo sedicente difensore dei diritti dei deboli suscitano solo disgusto – è, a caldo, il primo commento di Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso nella strage di Capaci -. Mi chiedo, alla luce di questa indagine se non sia necessario rivedere la legislazione in materia di colloqui e visite con i detenuti al regime carcerario duro. Non dimentichiamoci che lo scopo del 41 bis è spezzare il legame tra il capomafia e il territorio, recidere le relazioni tra il boss e il clan: scopo che si raggiunge solo limitando rigorosamente i contatti tra i detenuti e l’esterno».
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