Laurea in lettere, (d)istruzioni per l’uso Riflessioni sul salone dello studente

Non sono tantissimi i ragazzi interessati allo stand di Lettere ma quei gruppetti che si fermano riescono comunque a farmi male, perché sono decisi, granitici nella loro motivazione, e tocca a me piantare ai loro piedi i paletti della concretezza. C’è chi vuole fare l’archeologo e si vede già con la frusta di Indiana Jones alla ricerca di antichi manoscritti in Tibet; chi vuole fare il giornalista e immagina sé stesso nella hall di un albergo di Sarajevo col taccuino in mano mentre fischiano le bombe; chi vuole insegnare e pensa a balzare sulle scrivanie come il professor Keating nel film di Peter Weir. Vaglielo a spiegare che le fruste le sentiranno sulla loro schiena e che l’unica divisa che indosseranno sarà un elmetto e un giubbetto catarinfrangente nel mezzo di una trafficatissima strada con una paga da denuncia alla Corte europea dei diritti dell’uomo; come glielo dico che molti anziché Sarajevo vedranno trafiletti senza firma in fondo pagina con contratti a progetto ultradecennali; si renderanno conto ben presto che gli unici salti da fare sono quelli per il punto in più afferrato in graduatoria?

Hanno una gran confusione questi ragazzi, e non me la sento di liquidarli con due parole: ogni quarto d’ora comincio una specie di conferenza sulle responsabilità di scegliere un corso di laurea, sulle enormi fregature che riservano gli immancabili master post laurea, sul patchwork minato dei contratti di lavoro, sull’importanza delle lingue e sulla necessità di proiettarsi all’estero. Raccomando loro di arrogarsi il diritto di cambiare strada e il dovere di scegliere sulla base delle proprie passioni; in fondo ci sono solo due modi per fare denaro: rubandolo o eccellendo, e nessuno eccelle in qualcosa che non ama. Li lascio ogni volta con questa raccomandazione, perché si rendano conto che l’unica maniera per bilanciare le amarezze di domani è confortarsi con le cose belle che li hanno accompagnati ieri. Magari faranno tutt’altro rispetto a quello che hanno studiato con piacere; sempre meglio di fare tutt’altro rispetto a ciò che si è studiato forzosamente: nessun laureato controvoglia, in fondo, ha mai fatto soldi eccellendo. Ma questa è un’altra storia, e forse, uno su cento, andrà veramente in Tibet, scriverà un reportage sul Washington Post e formerà generazioni di brillanti studenti liceali. Forse.

[Foto di Un ragazzo chiamato Bi]

Gherardo Fabretti

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