La seconda volta di Simone Cristicchi all’ex Monastero dei Benedettini è coincisa, giovedì, con un bel pomeriggio di maggio, temperatura perfetta, e una platea piuttosto vasta, di sicuro più di quella che l’aveva accolto alla sua prima visita, nel novembre del 2005. Ma si sa, Sanremo può sortire di questi effetti, ed è Simone stesso (“L’ultima volta eravamo quattro gatti, mentre oggi, che bello, siete così tanti!”) a scherzarci su. L’incontro vero e proprio, che si è tenuto all’auditorium De Carlo, coordinato dalla giornalista Elvira Seminara con la partecipazione di Maria Rosa De Luca e Giuseppina Mendorla (docenti rispettivamente di Storia della musica e Psicologia all’interno dell’ateneo catanese), è stato preceduto dalla proiezione del documentario “Dall’altra parte del cancello”, risultato finale di un viaggio che ha portato il cantautore alla scoperta delle violenze e delle crudeltà gratuite subite dai “matti” all’interno degli ex manicomi. Un tema, questo, portato sotto la luce dei riflettori proprio dalla sua vittoria al festival di Sanremo, ma che, scopriamo, non è affatto nuovo per lui: Simone, classe 1977, ha un amico che “entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche”, ed è andando a trovare lui che è entrato per la prima volta in contatto con la realtà di questi luoghi, dove poi si è trovato ad operare in prima persona, lavorandoci come volontario. “Lì ho incontrato le persone più disparate, e ho cominciato a desiderare di passare il mio tempo con loro, che mi hanno regalato tantissimo, e hanno influito in maniera determinante sulla persona che sono diventato, su chi sono adesso. Perché all’interno delle cliniche, tra queste persone, i rapporti umani sono di una purezza infinita, che non si trova da nessuna parte, al di fuori delle mura del cancello”.
A chi gli chiede se lo spettacolo teatrale sia conseguenza naturale della tendenza alla narratività che caratterizza gran parte delle sue canzoni, Simone risponde che è solo così che queste storie, quasi tutte vere, diventano vive, è solo recitandole che alle parole dei malati è possibile rendere giustizia. Tra le tante cose che Simone vorrebbe fare da grande, poi, c’è la scrittura: “Tra qualche anno mi vedo chiuso dentro una casa di campagna a scrivere racconti”. Ma c’è una cosa sulla quale non si discute, “Il libro non è altro che un diario di viaggio, senza alcuna pretesa didattica”. E “Sì, le storie a lieto fine esistono”.
Quando, a conclusione del dibattito, lo raggiungiamo dietro le quinte del Metropolitan in attesa dello spettacolo delle 21.30, scopriamo che, tra le altre cose, Simone Cristicchi è anche un padrone di casa ospitale, con il quale è possibile chiacchierare con tranquillità anche ad appena un’ora dall’inizio dello spettacolo, con i musicisti, oltre la porta del camerino, che accordano gli strumenti in sottofondo.
Se non avessi fatto il cantante, ti saresti laureato? E una volta laureato avresti accettato di fare lo stagista/segretario a vita per – citando una tua canzone – 400 € al mese?
Se mi fossi laureato in storia dell’arte, come desideravo, avrei trovato tante difficoltà. Non ci sono fondi, ho degli amici laureati che fanno altri tipi di lavoro per mantenersi. Probabilmente la mia indole mi avrebbe portato ad abbandonare gli studi, come poi ho fatto. Non per mancanza di fiducia nel mercato del lavoro, ma perché quel mercato lì è senza speranze.
E saresti sceso a compromessi, scegliendo qualcos’altro, lontano da ciò che ti piaceva, Ingegneria informatica o Lingue e traduzione tanto per citarne due, con la speranza di maggiori garanzie per il futuro?
No, assolutamente no, anche perché lì ci vuole impegno e io mi sono impegnato fino a quando ho trovato delle risposte, poi la musica mi ha praticamente sequestrato e mi ha portato via.
Cd-libro-documentario è un percorso che conduce a un film? Se sì che film sarà/sarebbe? A colori in bianco e nero, d’animazione o con attori in carne ed ossa?
Sembra che siate telepatiche, perché questa notte ho sognato di fare un film. Un film in cui raccontavo la storia di Nannetti Oreste Fernando. Un personaggio del mio libro, uno di quelli che compare nel documentario. Quello che, praticamente, incide sul muro del padiglione Ferri di Volterra. Questo signore qui ha una storia straordinaria. Era un tipo che non parlava con nessuno, tutto quello che pensava lo scriveva su questo muro e a partire dalla sua storia racconterei in generale quello che è stato il manicomio, visto che i film su questo tema sono pochissimi, si contano sulle dita di una mano.
Sarebbe un film con finale triste o speranzoso?
Mah, chissà, forse speranzoso no. Non molto visto che Nannetti Oreste Fernando non ha avuto una vita così facile.
Abbiamo imparato a conoscere Rufus, il tuo alter ego, dichiaratamente anticlericale. Simone, invece, cosa dice? Ci lascia per lo meno il beneficio del dubbio?
Questo è un argomento che sto ancora studiando, se si può dire. Sono un po’ diffidente nei confronti di quelle persone che hanno delle risposte in bocca, delle risposte certe. Dubito un po’ di queste persone così sicure che non si fanno mai nuove domande. Sono le persone di cui dubito di più. Da questo nasce “Prete” [una delle sue canzoni inedite, n.d.r.]: la chiesa, tutte queste dinamiche che portano un individuo a dire qual è la parola del Signore, secondo un’interpretazione del tutto personale. L’interpretazione sta alla base di tutto. L’interpretazione su certi argomenti la posso dare io, e tu puoi darmene una diverse. Lì c’è un dogma che decide un po’ per tutti quale deve essere il pensiero comune.
Anche il pezzo “La risposta” rimando a questo aspetto. La canzone dice: “Guardo il cielo e c’è un buco fatto a forma di Dio.”
Ne “La risposta” c’è un po’ tutta la mia filosofia, la mia ricerca come uomo. Il fatto di non trovare, alle volte, delle risposte e in questo sta il bello. Nel momento in cui noi troviamo la risposta ad una nostra domanda ci si ferma e si mettono delle radici. Ci si crea delle convinzioni, dei punti fermi. Che per carità, è una gran bella cosa. Ti permette di guardare il mondo da un punto di vista tuo. Allo stesso tempo però c’è il rischio di mettere i paraocchi. La bellezza, secondo me, sta nel cercare sempre, fino all’ultimo giorno della propria vita.
Sappiamo bene che la moda del momento è farti domande sulla follia e affini, ma Emil Cioran sosteneva che “La follia è più vera della vita”, mentre Alda Merini afferma che “La follia è un dono Dio, il folle non sa di essere tale e vive beato…”. Cosa ne pensi?
Beh sicuramente se n’è parlato tanto in questi termini. Il matto rappresenta qualche cosa che nuoce alla normalità e allo stesso tempo ci fa sentire nel giusto. Molto spesso si giudica, nell’errore, il matto come quello che è controcorrente. Il matto potrebbe essere uno scienziato che se ne esce con una teoria rivoluzionaria, la teoria sull’evoluzione dell’uomo. Poi magari è reale. Basta pensare a Giordano Bruno, che è stato bruciato vivo…Comunque la cosa che più mi ha colpito durante questo studio, questa ricerca nei manicomi, è stato scoprire la volontà che vigeva allora di correggere le persone. Il fatto che venissero prese, studiate come delle cavie, cercando non tanto di curarle, quanto di correggerle, di tenerle a buone, di tenerle ferme. Lì è evidente la chiusura, la segregazione che sta alla base del manicomio, come del campo di concentramento. Fare una pulizia della strada, fare una pulizia anche delle menti. Dal momento che ti bombardano di psicofarmaci, tu sei sotto la “mia protezione”. Quindi l’istituzione diventa paternalistica, ti tiene fra le sue braccia, ti culla, non ti dà un futuro come uomo ma ti dà quel poco per tenerti in vita fin quando non ce la fai più. Nel caso di Antonio ti suicidi, nel caso di tanti ti lasci morire come delle piantine.
Nei manicomi era complicato anche fare questo gesto, che è molto intimo. Poi è giustificabile o no. Il fatto stesso che non avessi la possibilità di scegliere, questa è una delle cose più violente. Pensa che c’erano dei matti che per morire mangiavano il termometro, così il mercurio entrava in circolo. C’è la storia di uno che ha preso la rincorsa lungo tutta la sala ed è andato a schiantarsi la testa contro un termosifone. Se ne inventavano di tutti i colori pur di farla finita. Figurarsi com’era vivere, in luoghi del genere.
Quindi in realtà il volo di Antonio è un simbolo, ma è anche un volo di libertà, di recupero di dignità. Questo non vuol dire che il suicidio non lo sia.
Il merito del tuo lavoro sta nell’aver provato a sfatare l’elemento fiabesco e filosofico che accompagna spesso la follia. Il folle è l’artista, il poeta, lo scrittore, ma il folle è soprattutto un essere umano. I folli sono esseri umani che hanno vissuto in questi posti, i manicomi, che adesso non esistono più ufficialmente ma che ancora si celano dietro altri nomi o aspetti.
Il matto in quanto essere umano può avere dei momenti di fragilità, dei momenti in cui soffre e altri in cui no. Quando la follia diventa una scelta cosa puoi fare? Non puoi obbligare una persona a curarsi. Nel momento in cui io decido di fare l’artista, se vogliamo una scelta “folle”, non puoi obbligarmi a fare l’impiegato di banca. Perché è una scelta mia, personale. A un barbone che decide di abbandonare le convenzioni della società, gli puoi dire qualsiasi cosa: che è sporco, che non si lava, che dorme sotto un ponte, ma si tratta comunque di una sua scelta ed è da rispettare per questo. Anzi, beato lui che riesce a scegliere come dev’essere la sua vita. Meglio lui di quelli che si lasciano condizionare da tante cose. La ragazzina che vuole fare la velina o il ragazzo che vuole diventare calciatore…Allora chi è meglio, il barbone o loro che vogliono imitare qualcun altro?
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