La ricerca di una periferia meno distante

Periferia: parte o zona esterna rispetto ad un centro. Questo è ciò che un comune dizionario riporta alla voce in questione.

Ma se non è di certo dubbia la validità della definizione, è possibile arricchire la parola di significati ulteriori troppo poco discussi e più spesso nascosti.

Perché “periferia” vuol dire allontanarsi dal caos cittadino per dimenticarne i frastuoni e gli odori nauseabondi ma può anche corrispondere alla condizione di chi, non all’altezza dello status di una ristretta cerchia, viene allontanato per essere dimenticato.

La stessa parola può essere associata a termini quali “spazio periurbano” o “sobborgo residenziale”, di fatto piuttosto altisonanti, ma anche a quelli più modesti e in realtà di connotazione decisamente negativa di “città satellite”, “bidonville” o “favela”.

O ancora, “periferia” è parola perno in discorsi del tipo “Ho acquistato una villetta monofamiliare appena lontano dal centro” ma parimenti “Mi è stata assegnato un bivano in una casa popolare fuori città”.

Non si deve nutrire l’aspettativa che un’abitazione ottenuta con forti agevolazioni, e in qualche caso gratuitamente, debba  corrispondere ad un alloggio di lusso dotato di vasca da bagno con idromassaggio, elettrodomestici intelligenti da casa domotica o giardino con vegetazione esotica della foresta del Borneo. Ma, nel rispetto della dignità, della vivibilità o più semplicemente della decenza, non è oltremodo una pretesa l’ottenimento di quattro mura di dimensione proporzionale al numero di persone che andranno ad abitarle e, poiché è nel loro diritto, viverle, nel senso più onnicomprensivo del termine.

È un dato di fatto venire a conoscenza di casi in cui una famiglia di dodici persone (assodato che nuclei familiari così composti ancora esistono: due genitori più prole in numero dieci) venga decretata dal comune di appartenenza assegnataria di un trivani più servizi in uno dei tanti aggregati di casermoni, scenario delle ultime zone che rientrano solo per poco (e con fastidio di alcuni) entro i confini cittadini.

Anche quando nascono progetti di complessi popolari e residenziali a portata d’uomo spesso i buoni propositi iniziali e l’euforia da novità vengono spenti col tempo e le zone che li ospitano si trasformano in spazi ghetto. In un primo momento gli abitanti di questi luoghi, per certi aspetti “off-limits”, vengono emarginati da una minoranza dominante, in seguito è lo stesso processo che si autoalimenta e conduce ad una emarginazione volontaria dei residenti, che più non si riconoscono in chi non li ha mai riconosciuti e in chi ha costruito per loro delle abitazioni non per umano sostegno reciproco, ma per sottrarre alla propria vista realtà scomode.

È con questa logica che si spiegano palazzoni su palazzoni e ancora spazi grigi in cui i giardini pubblici sono sostituiti dalla “sciara” e, nella peggiore delle ipotesi, dalla discarica, e gli estremi spazi del gioco vengono affidati ad un gruppo di bambini e ad un pallone in un cantiere aperto, che forse mai verrà concluso e che solo l’essere ancora nella stagione della fantasia può trasformare in San Siro senza invidie per l’illustre modello milanese.

Si è parlato di “logica” che rende conto del fenomeno: a rigore il termine può essere considerato corretto perché mette in connessione date premesse con i conseguenti e prevedibili effetti; ma se il processo di interdipendenza è razionale, del tutto irrazionale sono proprio le premesse da cui si parte.

Sono tanto pubblicizzati casi felici di periferie destinate a parti deboli della popolazione in cui è garantito un tenore di vita sostenibile; ma queste realtà sono solo mosche bianche che, sebbene migliorino lievemente lo scenario, rimangono sterili se costituiscono l’eccezione che conferma una regola che non fa riferimento a nessuna giustizia, se è vero che questa deve essere per tutti e in eguale misura.

Né gli aspiranti governanti possono permettersi di considerare questi elettori ai margini pedine del gioco, chiedendo loro un voto in cambio di un’occasionale dono di derrate alimentari alla vigilia degli appuntamenti elettorali e ottenendo così la fiducia dettata dalla fame, più che dello stomaco, della voglia di essere giocatori attivi.

Nei tentativi di associazioni libere con “periferia” può tornare in mente (più che possibilità è un dovere) il caso particolare delle banlieus parigine. I fuochi appiccati hanno illuminato un’inquietudine, sintomo dell’insofferenza ad un sistema dominante ed escludente. La reazione non significa voler farne parte, perché ciò consisterebbe nell’entrare in una rete che ha le sue fondamenta nel concetto di un più forte i cui capricci stanno al di sopra di qualsiasi necessità vitale di un più debole.

Più semplicemente, la protesta vuole ristabilire un ordine fatto di poteri perfettamente democratici, e se i modi  degli scontri  non hanno nulla di pacifico, dunque fanno passare dalla parte del torto chi ha sovrabbondanza di ragioni a favore, un esame di coscienza può risalire alle cause di una tale violenza, forse più esplicita, ma non per questo più potente di quella subdola che la ha alimentata.

Queste voci, queste urla, chiedono soltanto ciò che a loro spetta, e se proprio i detentori del potere non vogliono farlo riconoscendoglielo come diritto, questi possono dare ascolto col puro spirito egoistico di mantenimento dei beni materiali posseduti, affinché  non  finiscano nel rogo di una nuova inquisizione, questa volta per mano di chi non ha mai controllato niente.

Questa vuole essere una provocazione, ma rende conto della misura in cui tutti facciamo parte dello stesso meccanismo; solo se teniamo presente ciò, l’ingranaggio continuerà il suo lavoro.

chiarazappala

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