“E se per qualcuno è la prima volta, si prepari. La sua vita sta per cambiare, dopo aver visto il poeta che da trent’anni viaggia il mondo in missione per conto delle divinità del rock”. Caspita, ho pensato sabato 18 luglio dopo aver letto queste parole di Gino Castaldo su Repubblica. In effetti domenica avrei visto Bruce Springsteen dal vivo per la prima volta. Ma non sapevo che avrebbe potuto essere un’esperienza mistica.
Non sono mai stata una fan sfegatata del Boss, tra lui e Dylan il mio preferito è il menestrello di Duluth, ma non sono così stupida da non cogliere al volo l’occasione di andare ad un suo concerto. La mia amica Maria Grazia mi aveva telefonato appena dieci giorni prima. Era riuscita a trovare dei biglietti invenduti su Internet (una volta all’Olimpico scoprirò che di biglietti invenduti ce ne devono essere stati un bel po’ al contrario di quanto riportato da tv e giornali ). Decidiamo di andare all’istante.
Domenica 19. Arriviamo allo stadio con 3 ore di anticipo. Maria Grazia è elettrica: Bruce è il suo mito. Saluta chiunque incroci come fosse un vecchio amico solo perché condivide la sua stessa passione. Ovviamente, siamo tra i primi ad entrare nello stadio. Abbiamo i posti in curva. La ragione è molto semplice: 46 euro- i più economici- contro i 90 della tribuna (il prato era sold out davvero).
Lo stadio fatica a riempirsi. Un’ora prima dell’inizio previsto del concerto (le 22) la curva sud è mezza vuota, come le tribune. La gente comincia ad arrivare solo verso le 21, 30- 22. Ma è solo alle 22.30, cioè trenta minuti più tardi rispetto al previsto , che il Boss fa il suo ingresso sul palco davanti ad un pubblico ormai spazientito che però lo perdona non appena sente la classica: “Qualcuno è vivo là fuori?”. E poi: “Siamo venuti da molto lontano per mantenere una promessa: curare le nostre anime e costruire una casa di musica e rumore. Noi portiamo la musica, per il rumore ci serve Roma!” e Roma risponde: comincia a ballare con Badlands e continuerà a farlo per più di tre ore, ora sulle note di splendidi classici, come “Dancing in the dark”- durante la quale Springsteen prende una ragazza tra il pubblico e la fa ballare proprio come faceva 25 anni fa con una giovanissima Courteney Cox nel video del brano- ora su brani più recenti, come Outlaw Pete, tratta dall’ultimo album Working on a dream.
La commozione è garantita con My city of ruins che il rocker dedica ai cittadini d’Abruzzo, intorno ai quali sembrano stringersi per qualche minuto i 40 mila dell’Olimpico.
Ma il tempo per la tristezza è breve: da showman consumato, Springsteen fa cantare un suo giovanissimo fan (al massimo settenne) a cui va l’applauso scrosciante del pubblico e poi afferra i cartelloni con le richieste dei brani da eseguire. E, come accaduto anche nei 3 concerti che hanno anticipato quello romano (Francia, Scozia, Irlanda), le esaudisce. A “Bruce, today is my birthday!!” risponde con Surprise, surprise e “I’m going to get marry” diventa la bellissima I’m on fire.
Il finale è affidato ad una trascinante ed interminabile cover di Twist and shout. Magnifica. Sembra che tutta Roma, e tutta l’Italia, stiano ballando il twist. Le curve, lo stadio, persino i più pacati delle tribune che avevano assistito a tutto il concerto seduti, si alzano e si scuotono come morsi dalla tarantola. Ma evidentemente dev’essere questo l’ obiettivo del rock’n’roll, no? Dondola e rotola.
Springsteen e la e-street band, con un ritrovato Clarence Clemons, il gigante nero, salutano lo stadio all’una passata. La folla se ne va refrattaria, “magari torna sul palco”, “magari fa Radio Nowhere”. E invece no, stavolta è finito sul serio.
A stento riesco a convincere Maria Grazia che è inutile aspettarlo all’uscita (quale, poi?) perché tanto lo “avranno già portato via.” Così la trascino verso l’uscita su Largo De Bosis. La gente, centinaia di persone, è in fila davanti ai tornelli parchè i cancelli sono chiusi e bisogna uscire uno alla volta. Alle 2 e un quarto siamo ancora lì, appena uscite. La polizia fuori è del tutto assente, ci sono solo i vigili della municipale che guardano attoniti i ragazzi che scavalcano i cancelli per evitare la fila.
Grazie al cielo, o grazie a Bruce?, per una volta l’Atac ci sorprende in positivo: tantissimi i notturni e addirittura un paio di autobus “speciali” con destinazione Termini, punto strategico per arrivare in ogni parte della città.
Alle tre e mezza andiamo a letto. Un carisma unico, una voce che resiste egregiamente a tre ore ininterrotte di concerto. Rock allo stato puro. La tappa romana segna una vittoria schiacciante per l’infinita battaglia che il Boss vincerà di sicuro, (o ha già vinto?). Per qualche ora almeno, anche le nostre anime sono salve. Alla fine, penso mentre chiudo gli occhi, Castaldo aveva ragione.
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