Prima di vedere “Terra ca nun senti”, capire cosa passava nella testa di Carmen Consoli era difficile assai, un vero enigma. Cosa laveva spinta a riprendere, in tempi come i nostri, il dolore e il bagliore ormai spenti di una musica desueta e lontana nel tempo? Come riproporre, affidandola ad una schiera così eterogenea dinterpreti (perché cè rosa e rosa), una cantata dal timbro forte e scuro, eppure tutta fuoco e fiamme colorate, come quella della Balistreri? E come resuscitare, dopo più di quaranta anni, il clima del «Ci ragiono e canto», delle letture-comizio di Ignazio Buttitta alle Feste dellUnità, degli ingenui ideologismi sul folklore cultura delle classi subalterne? Qualcuno (non chi scrive) si era persino spinto a sospettare che lomaggio alla Balistreri potesse risolversi in una fastidiosa kermesse: una pilloletta di zuccherosa cultura siciliana per accreditarsi alla corte plebiscitaria dei neo-viceré.
Invece abbiamo assistito a uno spettacolo rigoroso, commovente, raro; tagliente come i coltelli e le forbici dellarrotino di Elio Vittorini. La grandezza di Rosa Balistreri non fu infatti quella di limitarsi ad interpretare alcuni dei canti che un fine musicologo, Alberto Favara, aveva registrato per iscritto tra la fine dellOttocento e i primi anni del secolo scorso, bensì di cantare una Sicilia non pacificata ma amata e odiata, insomma finalmente vera: “malidittu ddu mumentu ca grapivu l’occhi nterra nta stu nfernu“.
Erano testi difficilmente piegabili al consumo di un malinteso senso del folklore; testi che gridavano la protesta dei poveri, dei braccianti, dei disoccupati, ma che soprattutto anticiparono ed accompagnarono la ribellione delle donne eternamente vestite di nero. Questa Sicilia ribelle si formò e fu accreditata, è bene ricordarlo, lontano dalla terra ca nun teni cu voli partiri e nenti cci duni pi falli turnari, attraverso linedito incontro tra emigranti veri e disperati (e Rosa era tra questi) ed alcuni intellettuali, da Renato Guttuso a Leonardo Sciascia, fuori dalla Sicilia perché approdati a una platea nazionale. Fu perciò musica e protesta, di una forza e di unintensità tali che lattuale sinistra, sempre più anemica e disorientata, ha qualche difficoltà ad ammettere che sia appartenuta alla propria storia.
Senza didascalismi e senza forzature di senso, la sobria regia di Di Pasquale, il breve efficacissimo intervento di Emma Dante, la scelta dei filmati proposti da Sebastiano Gesù, il coro lirico o tragico o vibrante delle dieci voci, ma più di tutto la determinazione e la passione dellautrice del progetto, ci hanno restituito la storia e il melodramma: le note, le parole e le cose. Insomma, Carmen ci ha dato una lezione. Di teatro e ricerca musicale, certo; ma anche di storia e dimpegno civile. Che parolona fuori moda!
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