La Festa di Santa Croce e Sagra del Tataratà

In barba alle ultime “rivelazioni” sull’assenza del bue e dell’asinello nella natività (per una maggiore fedeltà ai fatti), a Casteltermini, nell’Agrigentino, una leggenda vuole che fosse proprio un bovino a restituire alla comunità cristiana un “segno di Dio”.

Si narra infatti che prima del ‘600 un armentario si accorse che una delle sue mucche, che pascolavano liberamente nella campagna di Chiudda, per più giorni si distaccasse dal gruppo e si inginocchiasse sempre in un punto ben preciso. Incuriosito (e forse chissà un po’ superstizioso) da tale comportamento, notato anche dagli altri pastori, con il loro aiuto cominciò a scavare nel punto prescelto dall’animale.

Con grande sorpresa di tutti venne alla luce una croce lignea di dimensioni considerevoli, la quale, custodita in una chiesa prontamente ivi costruita, fu subito meta di grande adorazione. (a sinistra foto tratta da casteltermini 24.it)

All’epoca del rinvenimento, quel tratto di terra apparteneva al comune di Sant’Angelo Muxaro ed era già stato abitato nel IX secolo dagli arabi che, a partire dal 827, avevano invaso l’Isola. Col susseguirsi degli avvenimenti storici, la vita nella contrada aveva visto scomparire le varie dominazioni straniere e ruderi e casali erano rimasti ai contadini locali.

Nel Seicento questo feudo era stato affidato al Barone Gian Vincenzo Maria Termini e Ferreri che lo trasformò in centro abitativo e ne fu fatto principe (divenendo così il trentatreesimo principe siciliano facente parte del braccio militare del Parlamento). È questo il periodo al quale risale il “miracoloso” ritrovamento.

Per secoli alla croce fu accordato un gran valore simbolico, culminante nella festa che si svolge ogni anno la quarta domenica di maggio (per quest’anno la data è 26) e vede protagonista un po’ la storia di questo paese e del territorio siciliano tutto. Cominciando dalle due denominazioni che prende questo giorno – Festa di Santa Croce e Sagra del Tataratà – ritroviamo il filo conduttore della nostra bella Isola, in quella esatta mistione di sacro e pagano che accomuna la maggior parte delle nostre celebrazioni. (a destra, foto tratta da inyourlife.it)

La croce (oggi in copia a causa di una caduta che negli anni Sessanta ha provocato delle lesioni all’originale) viene trainata su un carro da due buoi e lasciata in adorazione al centro del paese. Accanto al lato più spirituale si affianca un corposo aspetto ludico ed umano.

Il venerdì si comincia con l’ingresso in paese dei quattro ceti – e cioè I Schitti (celibi), I Picurara (i pecorai), I Burgisi (borghesi), I Masci, ovvero la real maestranza, rappresentanti le quattro maggiori antiche corporazioni del paese (anche se in principio dovevano essere di numero superiore) – accompagnati dalle loro bande musicali, che sfilano lungo le vie sfoggiando i loro antichi costumi secenteschi.

Il sabato una nuova processione vede protagonista, unico, il ceto della maestranza il quale, con le più alte cariche in costume d’epoca (‘600), sfila a cavallo, accompagnato lungo tutto il percorso da danzatori di Tataratà.

Tataratà è il nome dato ad una particolare danza, singola od in coppia, eseguita con due spade vere per ciascun danzatore al suono di un tamburo e che ne scandisce le mosse (e dà l’appellativo). Tale danza è composta da salti, capriole e continui inchini, ed è da fare risalire – secondo l’ipotesi attualmente più accreditata – alla danza propiziatoria per la fertilità della terra.

Questi ballerini-guerrieri infatti eseguono un ballo dai caratteri primitivi e hanno il capo cinto da una corona di fiori, retaggio di antichi riti agresti.

La domenica, dopo la Santa Messa, sarà la volta della sfilata dei tre ceti rimanenti (celibi, pecorai e borghesi) su cavalli riccamente bardati, accompagnati ciascuno dal suono della propria banda.

Prima del rientro della croce all’eremo, che segna la fine della festa, ancora uno spettacolo di danza e bandiere, in un tripudio di energia e colori che vorticano in quanto gli sbandieratori, a differenza dei colleghi senesi, utilizzano una bandiera dal gambo corto, eseguendo giochi e movimenti maggiori e più articolati. (a sinistra, foto tratta da gruppocamperjollypalermo.it)

Questo stupefacente ritorno al cuore della natura ed a ciò che ci lega alla vita, dimostra quanto stretto sia il legame con i fatti del nostro passato. I costumi secenteschi rimandano inequivocabilmente al periodo in cui la croce ritornò ai cristiani. È il cerchio che si chiude: una croce dei cristiani (analisi scientifiche ne fanno risalire la datazione agli inizi del I secolo d. C.) che ritorna ai cristiani, simbolo di quanto l’uomo sia diviso fra l’umano ed il divino.

 

Ilaria Fatta

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