«Abbiamo tagliato le teste a Cosa nostra di Catania, del Calatino e di Siracusa». La soddisfazione è forte nelle parole del pubblico ministero Antonino Fanara durante la conferenza stampa dell’operazione Kronos della procura della Repubblica etnea, coordinata dai Ros dei carabinieri, che ha portato al fermo di 28 persone residenti nelle province di Catania, Ragusa ed Enna. Un’attività investigativa avviata nel 2015 e incentrata sulla figura dell’allevatore di Caltagirone Salvatore Seminara reggente della famiglia calatina a Enna e provincia, affiliato alla mafia catanese. Il boss, detto ‘U zù Turi, è stato fermato insieme all’attuale reggente di Catania Francesco Santapaola – figlio di Salvatore, detto Turi colluccio, cugino del più noto Nitto -, e a quello dei Nardo di Lentini Pippo Floridia, titolare dell’omonima azienda di trasporti, arrestato già nel 2008 perché ritenuto il collettore dei proventi del clan. Pare che Seminara avesse partecipato a un incontro con l’ex presidente della Regione Siciliana Raffaele Lombardo, secondo quanto dichiarato dal pentito nisseno Maurizio Saverio La Rosa. L’operazione «ha permesso di ripulire diverse province dalle cosche mafiose che vi operano da molto tempo, taglieggiando gli imprenditori in tutti i settori, dalla ristorazione agli appalti pubblici e privati anche nel settore dell’energia eolica», spiega il procuratore Michelangelo Patanè.
E proprio le attività di estorsione sono al centro, oltre che delle indagini delle forze dell’ordine, anche dei problemi delle famiglie mafiose. «I malviventi, a un certo punto, hanno iniziato a discutere su chi dovesse occuparsi delle messe a posto (le estorsioni in gergo mafioso, ndr) degli imprenditori – spiega Fanara – In genere riescono a mettersi d’accordo su riscossioni e spartizioni, durante i summit notturni». E proprio in una riunione interprovinciale tra le famiglie era stato deciso che i Santapaola avrebbero partecipato alla spartizione dei guadagni della cosca di Caltagirone. Pretese di Francesco Santapaola che avevano trovato terreno fertile nella scarcerazione di Alfonso Fiammetta. A capo del gruppo di Palagonia e Ramacca, tornato in libertà, voleva riappropriarsi del proprio territorio. Ma a presidiarlo aveva trovato Salvatore Di Benedetto e Giovanni Pappalardo. I quali si erano subito mostrati restii a cedergli il controllo.
La vicenda aveva reso necessario un altro summit, nel corso del quale i reggenti avevano stabilito che a occuparsi delle messe a posto sarebbero stati Giuseppe Mirenna per i Santapaola, Davide Ferlito per la famiglia di Caltagirone e Rosario Di Pietro per il clan Nardo. Mentre ai danni di Di Benedetto e Pappalardo, Fiammetta e Floridia – su presunto ordine del reggente di Catania – preparavano un attentato. Dall’agguato, il 4 aprile scorso, le vittime designate erano uscite illese ma pronte alla vendetta. Motivo per cui «alcune indagini ambientali e appostamenti dei carabinieri hanno appurato che si stesse preparando una vera e propria guerra di mafia», sottolinea Fanara. «Dal materiale raccolto si sentivano esercitazioni con fucili, mitragliatori e armi di precisione in qualche campagna e anche la frase – cita il pm – Se abbaia la cagnolina io suono la chitarra».
È per questo motivo che la procura è intervenuta con urgenza, avviando l’operazione completata oggi con il fermo di 28 persone. «Dal 4 aprile in poi le intercettazione in cui si pianificava il come e il quando di sparatorie erano all’ordine del giorno», precisa la magistrata Agata Santonocito. «Dietro un’apparente calma, le cosche esprimono grande dinamicità criminale nel cercare di riequilibrare le conseguenze delle attività delle forze dell’ordine», aggiunge il generale dei Ros Giuseppe Governale. «È stato proprio l’arresto di Fiammetta, reggente a Palagonia, a generare questa necessità. Soprattutto considerando che, durante un suo trasferimento, era stato deciso di eliminarlo», continua Governale. Che sottolinea l’importanza per l’operazione dei processi Iblis e Dioniso e attacca la cittadinanza rea di essersi inchinata alla malavita organizzata «ben due volte: durante la festa di Santa Barbara a Paternò e nel corso della processione del venerdì Santo a San Michele di Ganzaria». «Cose che non possono e non devono succedere – conclude il generale – e per le quali la sola forza degli investigatori non basta».
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