Il programma del prof. Famoso

Rinnovo della carica di Preside
della Facoltà di Lingue e Letterature Straniere
per il triennio 2005/06 – 2007/08

PROGRAMMA PRESENTATO
DAL PROF. NUNZIO FAMOSO

Sommario

1.      LA NOSTRA IDEA DI UNIVERSITA’
    
1.1 Una crisi drammatica: come opporsi al processo di privatizzazione.
1.2 L’autonomia del sistema universitario non può essere a costo zero.
1.3 La programmazione, basata su trasparenza e partecipazione, deve essere adottata a tutti i diversi livelli di governo dell’università .
1.4 Didattica e offerta  formativa.
1.5 Investire in sapere e ricerca avviando una politica  di svecchiamento e di rafforzamento dei settori umanistici.
1.6 Stato giuridico e meccanismi di carriera.
1.7 Aprire una nuova fase costituente nell’università di Catania (un nuovo progetto per l’autonomia, la programmazione e il decentramento).

2.     LA NOSTRA FACOLTA’
   
2.1 La facoltà di Lingue e Letterature straniere a sei anni dalla sua costituzione: dal bilancio alla prospettiva.
2.2 Personale tecnico-amministrativo; Lettori, Collaboratori ed esperti linguistici madrelingua; diritto allo studio.
2.3 Sulla sede  decentrata di Ragusa. Un impegno esplicito e fermo a potenziare quanto di positivo è stato realizzato e a progettare una fase di sviluppo. 
2.4 Valutazioni sull’ambiente in cui si vive ma anche si lavora e studia. Quale futuro per i Benedettini e l’Antico Corso?
2.5 Sapere, conoscenza e autonomia al servizio dello sviluppo del Meridione e dell’occupazione giovanile.
2.6 La centralità delle lingue nel processo di integrazione dell’area euromediterranea e nella futura collocazione della Sicilia.
2.7 Formare professionisti seri e rigorosi ma anche cittadini responsabili, critici e consapevoli.
 
1. LA NOSTRA IDEA DI UNIVERSITA’     
Scheda 1.1

Una crisi drammatica: come opporsi al processo di privatizzazione
           
L’università italiana si dibatte da qualche decennio in una drammatica crisi, resa ancor più acuta dai tagli governativi che ne hanno caratterizzato la vita finanziaria. Le proteste che sempre più diffuse si segnalano in molte sedi testimoniano uno stato di profondo malessere che pervade il mondo universitario, oggetto, ormai sono anni, di colpevole inerzia ed errate riforme. Più recentemente le Università, chiamate a gestire il decentramento amministrativo, l’allargamento delle sedi universitarie, la crescita e la differenziazione della domanda formativa, gli scorrimenti di carriera, la moltiplicazione dei servizi, l’assoluta carenza di personale e strutture, sono state poste di fronte a strozzature e soffocamenti a tal punto, come denunciato dalla CRUI, che si paventa, per qualche Università periferica, il collasso.
Lo stato di prostrazione degli atenei italiani è diretta responsabilità dell’azione governativa che contrae le risorse finanziarie destinate all’Università, scaricando su di esse la pesante lievitazione dei costi. Lo stato di grave difficoltà finanziaria degli atenei è stato prodotto  dalle modalità con cui è stata realizzata l’autonomia budgetaria, per iniziativa dei diversi governi che si sono succeduti dal 1993 a oggi. Lo stesso recente provvedimento governativo non prevede risorse aggiuntive per la copertura finanziaria delle misure adottate né appare  collocato all’interno di un intervento quadro sull’Università, che affronti il problema cruciale del suo finanziamento e del reclutamento di nuove unità di personale. Quanti studiano e lavorano in ambito universitario hanno costantemente davanti una dura realtà che si dibatte tra una pesante esiguità di risorse e un groviglio di risorgenti problemi, tra una dura quotidianità e l’impossibilità a programmare il futuro dell’impegno didattico-scientifico e tecnico-amministrativo. Col nuovo testo relativo allo stato giuridico dei docenti in discussione al Parlamento si vuole imporre l’approvazione di un DDL che completa la demolizione dell’università statale, lasciando campo libero a una gestione privatistica delle risorse pubbliche per l’università e la ricerca. Ma va ricordato che con la cancellazione dell’università statale si distrugge la principale risorsa del nostro Paese e si demolisce uno dei pilastri fondamentali della nostra democrazia.
I risultati sono sotto gli occhi di tutti: un pericoloso logoramento dell’impegno istituzionale e una grave disaffezione agli studi. Un arretramento che produce pericolosi scollamenti e crepe nel tessuto connettivo dell’università statale che in Italia vanta una tradizionale solidità. La precarizzazione, l’incertezza del futuro individuale, la falsa competitività generano una didattica e una ricerca sempre più dequalificate e una sempre minore attrattiva per il lavoro universitario. Lo smantellamento del sistema nazionale delle università statali può divenire il grimaldello per scardinare lo stato giuridico nazionale di tutti i docenti universitari e il valore legale del titolo di studio. Tutto ciò in nome dell’eccellenza, della concorrenza, della flessibilità e dell’aziendalismo: valori che a poco a poco cominciano pericolosamente a far breccia  in ampi strati del mondo accademico e politico.
E’ essenziale che,per il futuro del Paese,per la sua competitività, per la sua permanenza nel novero dei paesi maggiormente sviluppati, i settori dell’alta formazione e della ricerca vadano considerati prioritari e che pertanto le quote di risorse pubbliche statali a essi destinati vadano allineate a quelle degli altri paesi europei, dove rappresentano l’1,4% del PIL, contro lo 0,8 dell’Italia, e tendano al raggiungimento del 3% previsto per il 2010 dalla Conferenza di Lisbona.
Appare ormai improcrastinabile la necessità di un provvedimento legislativo sul sistema universitario che ne ridefinisca il ruolo chiave nella crescita culturale, civile ed economica del Paese e in cui, grazie a una più precisa definizione del ruolo, della funzione e della missione dell’università, si affrontino sia i problemi della programmazione del sistema universitario stesso sia quelli dei rapporti tra atenei e territorio. Perché ciò avvenga è necessario far ripartire un vasto movimento riformatore che sappia porre all’attenzione del Paese la centralità della questione universitaria come questione cruciale per lo sviluppo economico, sociale e culturale.

Scheda 1.2
L’autonomia del sistema universitario non può essere a costo zero
L’autonomia è condizione di efficacia ed efficienza delle attività di ricerca e di formazione. Un regime fondato sull’ autonomia limita l’invadenza dei pubblici poteri (statali e regionali), attribuendo alle singole istituzioni la possibilità di adattare la propria azione alla realtà in cui sono inserite. La polemica contro la tradizione centralistica, in nome della necessità di valorizzare le differenze, non deve però far trascurare che quel modello, tra tanti difetti, inefficienze e repressioni, un merito storico l’ha avuto: quello di essere un potente fattore di coesione dell’intera società nazionale, evitando o attenuando i dualismi (Nord-Sud, area scientifica-area umanistica ecc.). Se questo è vero, occorre combinare le due cose: valorizzazione delle differenze, ma anche esistenza di un quadro di riferimento unitario. Unità non significa uniformità, anzi. Se l’obiettivo è quello di formare cittadini e lavoratori in possesso di un sapere critico come strumento di sviluppo della propria personalità, ma anche come risorsa per un modello di sviluppo fondato sull’innovazione, allora i percorsi per realizzare un simile obiettivo unificante non possono che essere differenziati secondo le condizioni reali sulle quali l’attività educativa è chiamata a incidere. In poche parole dobbiamo, cioè, pensare a un “sistema” attento alle differenze; l’opposto, cioè, dell’attuale concezione dell’ autonomia che – pur affermando l’esigenza sistemica – parla di concorrenzialità tra Università, prendendo impropriamente a modello la concorrenza tra imprese. E’ attraverso il libero confronto tra i soggetti del sistema, attraverso una struttura di autogoverno, che il sistema stesso può far circolare al proprio interno le esperienze che si vanno compiendo, scegliendo le migliori.
Bisogna battere la concezione dell’ autonomia che nasconde una politica di deresponsabilizzazione degli organi pubblici in ordine all’ attribuzione di risorse al sistema. L’autonomia attribuita alle sedi è divenuta, ormai da tempo, un pretesto attraverso cui lo Stato si deresponsabilizza dal sistema pubblico universitario . E’ questo un gioco furbesco perché da una parte si dichiara la volontà di conferire autonomia al sistema, o meglio, alle singole unità dello stesso, dall’altra si procede a tagliare le risorse umane, materiali e finanziarie. Va respinta la logica di accettare i tagli tentando di destreggiarsi nella ricerca di difficili o impossibili fonti alternative, così come quella di tornare sotto l’ombrello rassicurante, ma anche paralizzante, del centralismo attraverso meccanismi di valutazione-incentivazione. Questo è oggi il terreno su cui sta crescendo una forte e pericolosa ingerenza del potere politico che tende a prevaricare e a ricondurre gli interessi formativi a logiche spartitorie, mortificando dignità e autonomia del mondo universitario. L’autonomia delle istituzioni va concepita sempre come un’ autonomia funzionale. Pertanto la programmazione universitaria non può essere eterodiretta perché  risponde alla sua comunità.
L’autonomia, se produce efficienza  innovazione e crescita del sistema della formazione e della ricerca,  va considerata un valore. Questo valore non può non avere un costo di cui deve farsi carico lo Stato. Diversamente è un disvalore.

Scheda 1.3
La programmazione, basata su trasparenza e partecipazione, deve essere adottata a tutti i diversi livelli di governo dell’Università .
 
E’ importante che la programmazione non cali dall’ alto ma veda il coinvolgimento di tutti gli organismi di rappresentanza del sistema ricerca e di quello formativo. Il metodo della programmazione deve essere perseguito dal livello più elevato (quello comunitario) fino a quello regionale. Esso deve essere affidato a scelte condivise (incentivazioni-disincentivazioni, convenzioni, progetti comuni, conferenze di servizio e di programma  ecc.), molto più che a meccanismi coercitivi di dubbia efficacia. Si pone con evidenza la necessità di sollecitare un ulteriore provvedimento legislativo di governance del sistema universitario su scala regionale. Per quest’ultimo aspetto appaiono, per esempio, del tutto insufficienti le funzioni attribuite al Comitato regionale di coordinamento, che non consente alla Regione concrete possibilità di incidere nelle scelte operate dalle Università o peggio ancora avallano istituzioni universitarie di dubbia qualificazione scientifica, fuori da ogni rigorosa valutazioni di merito.

Scheda 1.4
Didattica e offerta  formativa

Fino alla recente riforma degli ordinamenti didattici, il sistema universitario italiano si è caratterizzato per un’ offerta quasi esclusivamente concentrata su percorsi lunghi (corsi aventi durata legale di 4, 5 o 6 anni) e di elevato livello formativo, mentre poco rilievo e successo hanno avuto percorsi formativi più brevi e professionalizzanti. La nuova architettura del sistema universitario, prevedendo percorsi consequenziali di 3 anni, seguiti eventualmente da ulteriori 2, al termine dei quali si consegue prima la laurea, poi la laurea specialistica, introduce nel nostro sistema la reale possibilità di raggiungere un titolo spendibile già dopo tre anni di studio a tempo pieno. La laurea di primo livello è infatti maggiormente orientata a un immediato ingresso nel mercato del lavoro, mentre la specialistica è orientata a professioni o attività per le quali sono richieste o sono necessarie elevate competenze. Si prevedeva che la minore durata dei corsi di laurea, oltre ad anticipare l’età media di inserimeno nel mercato del lavoro dei nostri laureati, li avrebbe resi più competitivi rispetto ai colleghi degli altri Paesi, producendo effetti positivi anche sulla dispersione e sulla regolarità dei percorsi di studio. In particolare il secondo segmento dei percorsi formativi avrebbe dovuto vedere il rientro nell’università anche più volte nel corso della vita per conseguire differenti specializzazioni.
Più di recente il ministro Moratti ha perfezionato il percorso degli studi attraverso il noto modello a Y: la laurea triennale sarebbe un’opportunità per accedere direttamente al mondo del lavoro, così come quella magistrale, come ora viene definita,  darebbe allo studente la possibilità di approfondire e proseguire il percorso accademico. Fin qui il più recente processo riformatore in materia di ordinamenti didattici.
Queste novità, nella concreta  dinamica applicativa, hanno evidenziato palesi lacune.  Il sistema didattico è passato da una realtà statica a una dinamica a tal punto da sovrapporre i modelli formativi e senza che si abbia il tempo di riorganizzare la didattica sulla base di attente valutazioni.
I nuovi percorsi didattici non hanno sconfitto i mali endemici  dell’università italiana: il numero dei laureati, per quanto cresciuto in virtù delle nuove immatricolazioni, permane, tuttavia, ancora basso.  Va perseguito l’obiettivo di minori percentuali di abbandono e un abbassamento dell’età media dei laureati. Appare indispensabile snellire il percorso formativo per aumentare il numero dei soggetti formati.
Il sistema universitario italiano, caratterizzato in passato da percorsi lunghi  e di elevato livello formativo, non riesce a caratterizzare, salvo in alcune facoltà scientifiche,  i percorsi formativi più brevi e professionalizzanti i quali incontrano poco favore e successo tra i giovani. Il percorso breve è concepito in modo ibrido. È probabile che le triennali siano sentite come una sorta di superliceo e quindi come un tItolo mozzo.   Sicchè i giovani  tendono a proseguire gli studi, dopo il pri¬mo livello. Una tendenza letta nelle scelte delle prime generazioni di laureati triennali.
E’ completamente assente un osservatorio del mercato del lavoro. In realtà si sono registrati e si registrano continui mutamenti nell’evoluzione della domanda di formazione terziaria e nei risultati che il sistema sta conseguendo in termini di numero di laureati e diplomati. Non riconoscerli equivale a rinunziare alla valorizzazione di quanto è stato fatto in questo ultimo periodo. Si riscontra il proliferare di corsi di studio nati casualmente o per rispondere a qualche istanza localistica di basso profilo che finiscono per sovrapporsi a un’eccedente offerta formativa e a rispondere in modo inadeguato alle istanze e vocazioni socio-territoriali.
Per quanto le prime specialistiche siano partite solo di recente, già si sta procedendo alla loro ridenominazione e purtroppo non si tratta di un semplice  problema nominalistico. La laurea specialistica (che prenderà il nuovo nome di magistrale) si può scegliere dopo aver raggiunto la triennale. Nelle intenzioni della riforma universitaria c’era però anche quella di favorire percorsi ibridi e scambi fra classi di studio.. Ma se si cambia ambito, è possibile che non tutti i crediti della triennale vengano accettati e che si debbano quindi recuperare dei debiti. Un gran lavoro sarà affidato alle commissioni dei corsi di laurea per decidere l’idoneità del curriculum e gli eventuali debiti.
È evidente che mentre attendiamo  che i decreti sulle classi di laurea diventino realtà, la fase di transizione creerà disagio. Mentre le università europee si attrezzavano per dare risposte differenziate alla massificazione dei processi educativi e alla crescita dell’autonomia e della concorrenzialità tra atenei, l’Italia ha rincorso confusi modelli formativi e ordinamenti didattici e un regime gestionale autonomistico che penalizza le sedi periferiche, aprendo pericolosi dualismi formativi e scientifici e appesantendo la capacità di reggere l’urto di una università sempre più marcatamente di massa. Tutto ciò si è prodotto perché i nuovi processi e le nuove sfide si sono affrontati con immobilismo, col decremento delle risorse e con l’ accentramento politico del governo universitario

Scheda 1.5
Investire in sapere e ricerca avviando una politica  di svecchiamento e di rafforzamento dei settori umanistici
 
La ricerca universitaria ha subito ovunque profondi cambiamenti, in parte come conseguenza dello stesso sviluppo delle conoscenze scientifiche, ma principalmente a seguito dell’evoluzione sociale e del diverso atteggiamento della società nei riguardi delle istituzioni di alta formazione.
Lo sviluppo delle conoscenze scientifiche ha portato da tempo a una crescente complessità del sapere, che si articola e frammenta lungo nuove direzioni e, contestualmente, si organizza secondo forme nuove, nate sotto l’impulso dei problemi piuttosto che come naturale espressione di singoli saperi. Tale evoluzione sta tuttavia avvenendo seguendo una linea unilaterale. Sicché alle istituzioni di alta formazione è richiesta una maggiore enfasi sugli aspetti di professionalizzazione e occupabilità del personale formato, con la raccomandazione di costanti contatti con il mondo del lavoro e della produzione. Questa indicazione non ha solo un immediato riflesso sull’ ordinamento degli studi e sulle forme di insegnamento, ma induce un profondo cambiamento anche nelle forme in cui si esplica l’attività di ricerca dei docenti.
In rapporto al passato, la ricerca è sempre meno un processo individuale, portato avanti nel singolo ateneo, e sempre più un processo collettivo, centralizzato, condotto da gruppi eterogenei legati attraverso reti di collaborazione più o meno rigide, che includono vari partner, anche non accademici. Anche questo penalizza la ricerca umanistica, spesso vocata alla ricerca individuale. Cosa si può fare per non rassegnarsi a questa situazione? In primo luogo è importante trovare forme di ringiovanimento del sistema, che non consistano esclusivamente nell’ assunzione in forme precarie più o meno mascherate di giovani.
 La ricerca  universitaria italiana sta attraversando una fase di declino perché riflette fondamentalmente il più generale declino della società che invecchia e che è priva di quella vitalità capace di dare prospettive ai giovani. Ringiovanimento del personale, incentivi alla mobilità dei docenti, forme di partenariato università-imprese, valorizzazione delle risorse sono misure sulle quali occorrerà investire di più. In questo quadro occorre valorizzare il dottorato di ricerca, rendendolo effettivamente il primo gradino della formazione alla ricerca. 
Ma forse la realtà che più drammaticamente riflette lo stato di sofferenza della ricerca è costituita dallo stato in cui si dibattono i dipartimenti, le strutture universitarie nate per sviluppare la ricerca universitaria e oggi ridotte ad appendici del complesso sistema universitario, deprivate di vere funzioni e di effettive prerogative per sviluppare la ricerca. Ridotte a meri organismi di ordinaria amministrazione soprattutto a causa degli scarsi fondi in dotazione alla struttura e ai docenti che vi afferiscono, i dipartimenti sono posti nelle condizioni di non poter discutere e decidere in ordine a progettualità scientifica e a programmi di ricerca  per giovani studiosi.
C’è, poi, un rischio che va colto in tempo: la linea scientista e aziendalista che si è diffusa in  modo più dirompente da quando è stata lanciata la cultura delle tre i.Da qualche tempo è invalsa l’idea che la cultura umanistica, che peraltro costituisce la spina dorsale di questo Paese, la sua più consolidata tradizione e il fondamento formativo e distintivo di intiere generazioni, abbia perso il suo peso. Per comprender ciò basta vedere come ha proceduto la riorganizzazione della ricerca scientifica in Italia e segnatamente la sorte che è capitata al CNR di recente.
A un anno dalla fine del commissariamento, il Cda del Consiglio nazionale delle ricerche ha disegnato il nuovo volto dell’Istituto individuando 11 ma¬cro aree di attività. A esse corrispondono altrettanti dipartimenti: Terra e ambiente, Energia e trasporti, Agroalimentare, Medicina, Scienze della vita, Progettazione molecolare, Materiali e dispositivi, Sistemi di produzione, Tecnologie dell’informazione e della comunicazione, Identità culturale, Patrimonio culturale. Alle ricerche sulla salute il Cnr destina il 20% delle risorse e una percentuale analoga riserva all’ambiente. Direttamente riconducibili alla questione della competitività del sistema produttivo nazionale sono le macroaree Sistemi di produzione, Materiali e dispositivi e Progettazione molecolare che impiegano il 36% delle risorse disponibili. Legata alla competitività anche l’area dell’energia e dei trasporti cui è dedicato il 5% delle risorse (al¬tri enti, come l’Enea, sono impegnati su questo fronte). Il tema dell’agroalimentare assorbe il 7% delle disponibilità così come l’area delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione. Il 4% delle risorse, infine, va allo studio della società che cambia e il 3% allo studio della conservazione e valorizzazione del patrimonio culturale-artistico nazionale.
Mentre sarebbe necessario, entro opportuni limiti, che il Paese svolga attività di ricerca spontanea a tema libero, quella che gli anglosassoni chiamano «curio¬sity driven». A queste attività il Cnr destina appena il 15% del suo budget, assolutamente inadeguato rispetto alla domanda.

Scheda 1.6
Stato giuridico e meccanismi di carriera

Desta sconcerto e preoccupazione il progetto di riordino della docenza, attualmente in fase di approvazione da parte del Parlamento. Non possiamo che esprimere un  giudizio decisamente negativo anzi si auspica che il buon senso prevalga e che il testo venga ritirato per potere così procedere a una sua completa riscrittura, come ormai viene richiesto dalla gran parte del mondo scientifico, istituzionale e sindacale. L’attuale testo in discussione, infatti, non risolve nessuno dei nodi problematici fondamentali né presenta risposte positive per una ridefinizione dello stato giuridico della docenza e si finisce per adottare soluzioni assolutamente peggiorative. In particolare il provvedimento non è collocato all’interno di un intervento quadro sull’università, che affronti il problema cruciale del suo finanziamento e comunque non prevede risorse aggiuntive per la copertura finanziaria delle misure adottate. La struttura docente e il suo assetto funzionale accentuano antiche discrasie. L’inserimento nei ruoli strutturati sta divenendo una chimera. Il fisiologico ricambio generazionale dei docenti sembra non avere futuro. Il reclutamento nella fascia del ricercatore, l’unico sbocco possibile per iniziare la carriera universitaria, si va riducendo paurosamente, surrogato da figure precarie che spostano in un tempo lontano l’inserimento nei ruoli dell’organico docente. I meccanismi di scorrimento delle carriere diverranno sempre più lenti, ma il fatto più grave è che il profilo dell’età dei docenti universitari dovrebbe indurre a una tempestiva politica di reclutamento stabile di giovani da avviare alla docenza che è lungi dal venire. L’Italia è il paese con la tradizione per età dei docenti universitari maggiormente sbilanciata verso le fasce avanzate. E tutto ciò mentre si prospettano una scarsa  politica per favorire l’ingresso di soggetti giovani nei ruoli accademici e l’accentuazione del precariato come condizione duratura di lavoro entro l’Università. Si aggiunga che i livelli retributivi, una volta decantati fra i migliori del pubblico impiego, al palo ormai da molti anni, sono inadeguati; la crescita dell’offerta formativa, attraverso supplenze e affidamenti, viene coperta con remunerazioni sottopagate e perfino con coercizioni, mentre gli stessi emolumenti previsti per legge o per l’impegno nelle singole sedi vengono soggetti a tariffe discrezionali.
I nuovi requisiti di flessibilità del servizio didattico,richiesti dalla recente riforma didattica;   i risultati deludenti forniti dalla recente riforma dei meccanismi concorsuali, anche se si ritiene che essi non siano stati determinati dal decentramento delle procedure concorsuali, ma dall’inadeguata gestione dei concorsi, che ha spesso penalizzato la qualità delle selezioni e la mobilità,per favorire burocratiche carriere interne; la mancata realizzazione nel tempo di condizioni di ricambio ordinato e progressivo nei diversi gruppi di ricerca e il conseguente invecchiamento del personale docente e ricercatore, di cui circa la metà andrà in quiescenza nel prossimo decennio; la mancata definizione dello stato giuridico dei ricercatori, problema lasciato aperto dal DPR382/80; lo stato di grave difficoltà finanziaria degli Atenei,a causa delle modalità con cui è stata realizzata l’autonomia budgetaria degli stessi: questo è il quadro malato dell’università italiana.
I meccanismi concorsuali, inoltre, si pongono spesso in contrasto con la  necessità che gli avanzamenti di carriera siano legati a criteri meritocratici e a rigorosi meccanismi di valutazione. Nello stesso tempo viene violato il principio dell’autonomia universitaria al cui ambito vanno ricondotti tutti i processi di valutazione. Il sistema relativo ai meccanismi concorsuali per l’accesso in ruolo e per la progressione di carriera necessita di criteri rigorosi e trasparenti al fine di favorire, da parte delle università italiane, livelli di produttività scientifica e didattica allineati a quelli delle migliori università europee e americane. Se il testo legislativo proposto venisse adottato, i giovani più dotati potrebbero essere scoraggiati dall’intraprendere la carriera universitaria e non verrebbe fornita una risposta soddisfacente all’esigenza di promuovere un ricambio generazionale.
Induce perplessità il modello di università proposto dal disegno di legge, fondato su una dotazione di organico di personale di ruolo piuttosto ristretta, affiancata da un gran numero di personale non strutturato a contratto, per il quale si aprirebbero,di norma, chances concrete di ingresso in ruolo solo dopo i 40anni. La maggior parte dell’attività universitaria  dovrà essere garantita da personale titolare di diversi tipi di contratti rinnovabili e ,comunque, di natura privatistica. Altrettanto negative appaiono le proposte relative al personale attualmente in servizio nelle università. Da una parte si prospetta per i ricercatori l’attribuzione di un titolo meramente formale, privo di concrete connotazioni di stato giuridico, dall’altra si adottano misure particolaristiche che prospettano inaccettabili forme di ope legis. Più convincenti in alternativa sembrano essere soluzioni che prevedano: un periodo di formazione alla docenza successivo al dottorato di ricerca, di durata ragionevolmente breve, coperto da contratto e tale da consentire, alla sua conclusione, le necessarie scelte qualitative di quelli che potranno risultare idonei per l’ingresso nei ruoli dei professori; un ruolo della docenza articolato su più fasce, caratterizzate da livelli differenziati di qualificazione scientifica; l’articolazione proposta su sole due fasce, con la contemporanea messa a esaurimento del ruolo de ricercatori, finirebbe inevitabilmente per innalzare eccessivamente l’età di ingresso in ruolo.
Nelle more va urgentemente bandito un numero congruo di posti di ricercatore.

Scheda 1.7
Aprire una nuova fase costituente nell’università di Catania (un nuovo progetto per l’autonomia, la programmazione e il decentramento)

Il sistema universitario siciliano necessita di una sede per la programmazione. Non è pensabile andare avanti con decisioni improvvisate. Bisogna superare l’andazzo di procedere in ordine sparso e frammentare o sovrapporre le scelte; bisogna dare un’ immagine unitaria allo sviluppo del sistema universitario in Sicilia, fissando obiettivi complessivi, stabilendo priorità,evitando doppioni e ingerenze, attuando strategie di valorizzazione e di crescita. In modo particolare vanno ridiscussi composizione, ruolo e funzioni del Comitato regionale, organo delicatissimo in quanto è divenuto sede primaria della programmazione e del coordinamento sul territorio, sia in ordine alle competenze in materia di  programmazione e sviluppo del sistema universitario, sia in riferimento a materie come la programmazione degli accessi all’istruzione universitaria nella regione, l’orientamento, il diritto allo studio, l’alta formazione professionale, la formazione continua e ricorrente, e ai rapporti con il sistema scolastico, con le istituzioni formative regionali e con le istanze economiche e sociali del territorio.  Bisognerà essere più rigorosi e controllati nell’esprimere pareri vincolanti, da parte delle singole università, di nuove facoltà e corsi nella sede dell’ ateneo in deroga all’iter ordinario previsto per la programmazione e con risorse a proprio carico. Le grandi sfide come il potenziamento qualitativo del sistema universitario siciliano, da conseguire in stretta sinergia tra gli atenei isolani, e l’ attivazione – in questo contesto – di ambiziosi progetti di internazionalizzazione rivolti ai Paesi della sponda sud del Mediterraneo, come il politecnico e il Polo umanistico del Mediterraneo, non si possono improvvisare né tanto meno affidare alla politica.
In questo contesto, a livello d’Ateneo, urge una riscrittura delle regole e un impegno istituzionale che dia solidità e certezza all’azione di governo e di programmazione, mentre vanno ridefinite in modo più puntuale le norme che regolano le relazioni tra i vari momenti e settori dell’Università di Catania In particolare pensiamo a una grande riflessione di bilancio dell’esperienza statutaria.  E’ una questione ineludibile perché a nove anni di distanza dall’approvazione dello Statuto e dopo i non lievi mutamenti intervenuti nelle normative di gestione degli atenei e negli ordinamenti didattici, nonché nella struttura dell’ateneo (si vedano i decentramenti), procedere a una revisione dello Statuto stesso, del Regolamento Generale d’Ateneo, del Regolamento di Contabilità, del Regolamento didattico è evento che presenta caratteri di urgenza. La stessa prassi autonomistica, ricca di esperienza didattico-amministrativa dalle ricche implicanze e innovazioni,sollecita una revisione  dello Statuto e di tutti i Regolamenti, in uno spirito condiviso, come d’altra parte prevede lo Statuto stesso, coinvolgendo pienamente Facoltà, Dipartimenti, rappresentanze del personale tecnico-amministrativo e studenti.

 
2.     LA NOSTRA FACOLTA’

 

Scheda 2.1
La facoltà di Lingue e Letterature straniere a sei anni dalla sua costituzione: dal bilancio alla prospettiva

Esattamente sei anni fa iniziava l’autonomo itinerario di insediamento e costruzione della nostra facoltà. Questi anni non sono stati facili. Molte le difficoltà da superare per una giovane facoltà che non ha goduto di incoraggiamenti e incentivi adeguati. E tuttavia essa ha avuto modo di crescere: allargando gli  ambienti di studio e di lavoro, gli organici docenti e non, i contenuti e l’offerta formativa, i laboratori e le attrezzature, le strutture tecnico-amministrative, i servizi, il vasto “portfolio” delle competenze. Ma innanzitutto è cresciuta l’identità della facoltà che presenta ormai caratteri peculiari e distintivi.  La crescita di cui si parla è avvenuta nel segno di una discontinuità con il passato ormai alle spalle, segnato da accademismo, accentramento, debole confronto delle idee. Oggi noi ereditiamo un quadro che presenta questi aspetti positivi che intendiamo valorizzare:
– una facoltà coesa che ha cementato la sua unità nel libero confronto delle idee, delle opinioni e delle posizioni diverse e che ha fatto della collegialità, della partecipazione, della trasparenza e della programmazione prerogative essenziali  nella formazione delle decisioni;
– una facoltà autorevole e rispettata che proietta un’immagine di sé seria e rigorosa;
– una facoltà che si muove con equilibrio e imparzialità e produce scelte forti e condivise;
– una facoltà che sa unire globale e locale, generale e particolare cosi come necessitano i tempi.
Dal bilancio della ricca attività si evincono dati positivi a testimonianza di un buon operato. Intanto la crescita costante nelle imma¬tricolazioni che documenta l’interesse che manifestano i giovani nel preferire i nostri corsi e studi. Con i suoi 5.252 studenti, complessivamente  sia a Catania che a Ragusa, si è in presenza di una popola¬zione  entusiasta che  stimola e invoglia a migliorarsi. Il più gettonato è il corso di laurea in “Scienze per la comunicazione internazionale”, perché intercetta interessi di forte attualità e modernità, potendo offrire   una preparazione da spendere nei settori dei servizi culturali; nel¬l’ ambito del giornalismo, dell’edi¬toria e della pubblicità; nelle istitu¬zioni culturali, nelle imprese e nel¬le attività commerciali; nelle rap¬presentanze diplomatiche e con¬solari. Un interesse consolidato si esprime per lo studio delle lingue che oggi può essere rivolto non solo al tradizionale campo della for¬mazione degli insegnanti e dell’addestramento alla ricerca, ma anche a campi nuovi che hanno al centro le lingue. Crescono anche gli iscritti in “Scienze della mediazio¬ne linguistica” articolato in tre indirizzi: “Scienza e tecni¬ca dell’interculturalità”, “Esperto linguistico per il turismo”, “Esperto linguistico per l’impresa”. Ed è sulla base di un tale significativo patrimonio ereditato che è possibile guardare al futuro con qualche dose di tranquillità. Oggi, diversamente rispetto a ieri, la Facoltà di Lingue permette d’investire le conoscenze acquisite nel corso degli anni, non solo nell’ambito dell’insegnamento, ma nei più disparati settori professionali. Attualmente, nel villaggio globale che si estende e si spande, si arricchisce il valore aggiunto di curricula universitari che vantano una, due, più lingue da spendere nel mercato del lavoro. Una ricchezza che intendiamo rafforzare, aprendo ad altre lingue e prevedendo la valorizzazione del plurilinguismo. Queste diverranno sempre più chiavi d’accesso per le aziende che puntano al mercato e alla sua internazionalizzazione ma anche per un territorio sempre più globalizzato. La nostra moderna offerta formativa consente la nascita di figure professionali trasversali. I laureati in quest’ambito saranno pronti a svolgere attività nel campo della scuola, con particolare attenzione per i problemi delle classi multietniche, del turismo, dell’organizzazio¬ne di attività compatibili con l’ambiente, della comunicazione turistica per il mercato, dell’editoria tradizionale e multimediale, dell’impiego negli uffici stampa di enti e aziende del settore per finire,dell’accoglienza e dell’integrazione degli immigrati. Attività, queste ultime, oggi più che mai attuali. L’asse che oggi regola domanda e offerta sta cambiando, sì da adeguarsi alle richieste del mondo professionale, che poi dovrà accogliere i nostri studenti.In poche parole si tratta sempre più di finalizzare lo studio delle lingue, che resta fulcro centrale del nostro insegnamento, alle esigenze poste dalla globalizzazione. E non già per indebolirne ma per esaltarne l’insegnamento.
Va valorizzato ma allo stesso tempo guidato l’impegno pratico dello studente che resta ormai fondamentale in una università che si caratterizza per il dire e il fare. Nell’ambito del  progetto Medialab, con laboratori che spaziano dalla fotografia, alla pubblicità, alla realizzazioni di cortometraggi e che ha dato ottimi risultati, vanno individuate in accordo con le richieste da parte dei ragazzi nuovi laboratori da far svolgere a esperti e tecnici dei vari settori. Sapendo che in questo campo bisogna coniugare il principio della coerenza formativa e curriculare e la libera istanza dello studente. Un’importanza particolare ha il consolidamento derlla proiezione della nostra facoltà su internet. Passi importanti sono stati la completa ristrutturzione del sito web della facoltà, che adesso è da annoverare tra i più funzionali e dinamici del nostro ateneo, e la promozione di attività studentesche autonome, ma guidate da alcuni docenti, come la realizzazione del giornale e della radio online (vedi il progetto Step1 da sostenere e potenziare).
Nell’attesa che il ministero approvi le nuove classi degli ordinamenti didattici, occorre programmare la revisione di tutti i piani di studio, rendendoli  ancor più funzionali all’offerta formativa, tramite la diminuzione del numero degli esami e lo snellimento delle prove di verifica. La revisione dovrà investire necessariamente i corsi triennali e magistrali. Non va dimenticato, infatti, che per qualche corso, come per quello di mediazione linguistica, bisognerà addirittura configurare il biennio magistrale.
Si dovrà, inoltre, costruire un sistema di deleghe che rafforzano il decentramento e l’operatività della facoltà assegnando responsabilità operative (laboratori, programma culturale, guida dello studente, relazioni internazionali etc). Ma l’investimento maggiore va fatto sul personale, potenziando l’organico così da permettere che non ci sia un rapporto divaricato docente-alunno e provvedendo a potenziare anche i laboratori e servizi. In questo quadro bisognerà ridiscutere i parametri che sono stati alla base della programmazione dei punti-docente. Una scelta che se dovesse mantenersi, giocando sul recupero delle risorse provenienti dal turnover dei docenti, finirebbe per penalizzare una facoltà giovane come la nostra oltre che mortificare le vere istanze che qui andrebbero prese in esame: le attività didattiche.
Ciò non toglie che bisognerà trovare dei parametri per procedere alla programmazione del reclutamento e degli scorrimenti di carriera nella facoltà. Ritengo che non si potranno eludere questi parametri: a) quadro delle compatibilità con lo sviluppo della facoltà (tenendo conto soprattutto della soglia di attivazione dei corsi e del loro potenziamento); b) carichi didattici; c) maturazione scientifica e relative aspettative di carriera.
Intendiamo esprimere una grande considerazione per il Centro linguistico multimediale di ateneo. Viene considerata una struttura indispensabile per una formazione linguistica moderna e qualificata. Purtroppo si è assistito, da parte dell’università, a un disconoscimento dell’importanza di una tale struttura. Sarà nostro obiettivo quello di impegnarci per valorizzare il Centro richiamando, in modo fermo e deciso,  l’università ai suoi impegni e responsabilità. Intendiamo, altresì, mantenere e se sarà possibile valorizzare la grande apertura culturale, scientifica e sociale che ha segnato la vita della facoltà. Continueremo a mantenere e a consolidare relazioni e convenzioni con centri culturali e sociali, come il “ Centro F. Braudel “ e la “ Convenzione per la pace “.  Quanto alla costituzione di Master siamo contrari alla loro proliferazione, fuori da ogni logica di programmazione e di reale rapporto con il mercato ed il territorio. A questo riguardo si assiste a una sconsiderata espansione del master. Alcuni master, infatti, più che a logiche formative e professionali, rispondono a logiche accademiche e politiche, finendo per aprire facili illusioni e aggravando i costi delle famiglie. Va prevista la costituzione di un organo di valutazione che prenda in esame, secondo parametri e requisiti di serietà e di rigore, la nascita di un master. La facoltà che con scrupolo e responsabilità, ha istruito, dopo averne molto dibattuto, la formazione di un master in “ Comunicazione pubblicitaria e New Media”, intende entrare nella fase di fattibilità.
        La facoltà deve andare avanti accettando le nuove sfide, certo tenendo fede alla tradizione ma scommettendo sull’innovazione e  misurandosi,  appunto, con il nuovo che avanza non già come effimero ma come inscritto nelle professioni, nella società e nel territorio. Bisogna puntare molto alla circolarità dei saperi e  saper portare avanti un discorso di innovazione che non è appannaggio esclusivo delle discipline scientifiche. Bisogna saper interpretare l’esigenza di nuovi orizzonti e reinventare i percorsi. Chi fa lingue oggi deve saper uscire dal cerchio della sua esperienza e aprirsi  al confronto,in uno scenario di cambiamento, più ampio rispetto a prima.

Scheda 2.2
Personale tecnico-amministrativo; Lettori, Collaboratori,
ed esperti linguistici madrelingua;  diritto allo studio
 
Non meno risorse richiede l’autonomia concepita a livello dell’organizzazione del lavoro tecnico-amministrativo. Per praticarla e gestirla, infatti,  è necessario che parte del tempo lavoro di chi opera all’interno dell’istituzione sia dedicato alla gestione dell’autonomia e che le antiche professionalità siano integrate da nuove. Di qui la fondatezza della rivendicazione di organico funzionale,  cioè di un organico che tenga conto anche delle necessità di autogoverno dell’istituzione. Se l’autonomia si giustifica con la maggiore capacità dell’Università di rilevare i bisogni formativi del territorio, questa rilevazione non è frutto di rivelazione divina, ma di un’ attività lavorativa da compiere con adeguata professionalità; in mancanza rimaniamo affidati al dilettantismo della buona volontà individuale che, come è noto, porta più danni che vantaggi. D’altro canto, se autonomia significa (anche) gestione autonoma di un budget congruo con i nuovi spazi di iniziativa che l’autonomia attribuisce alle istituzioni, occorre personale amministrativo adeguatamente preparato. Nelle università, ogni struttura, facoltà o dipartimento che sia,  ha un proprio apparato amministrativo che cura tutti gli aspetti amministrativi e gestionali Una particolare attenzione va posta alla gestione dei servizi che vanno sempre più moltiplicandosi e rendendosi complessi. Il personale tecnico- amministrativo della nostra facoltà, esiguo e con retribuzioni scarse, ma altamente motivato, si fa quotidianamente carico di complessi oneri. La  crescita dei compiti e degli impegni della facoltà non ha trovato adeguata corrispondenza nel potenziamento del personale tecnico-amministrativo. Il personale in servizio così ha finito per surrogare altri impegni, anche se un alleggerimento è venuto da personale precario e a contratto. La stessa qualificazione e gli avanzamenti di carriera ne hanno avuto a soffrire. Giova mettere mano a una riorganizzazione dell’apparato tecnico amministrativo puntando su:
– un progetto di qualificazione per rispondere alla complessità crescente del lavoro;
– un coordinamento e una articolazione dei compiti e delle responsabilità che deve essere   netta e chiara per dare efficacia ed efficienza ai servizi a supporto dell’attività didattica;
– un allargamento e consolidamento delle risorse per far fronte a oneri straordinari;
– progetti di incentivazione che si avvalgono anche di risorse extrauniversitarie;
– una programmazione riferita ad attribuzioni di responsabilità, a sviluppi di carriera e a espansione del personale tecnico-amministrativo.
Con l’istituzione della Facoltà di Lingue s’è aperta una nuova fase nel rapporto con i Lettori e i Collaboratori ed esperti linguistici madrelingua. La facoltà ha inteso valorizzare la loro insostituibile funzione e all’interno della Conferenza dei Presidi delle Facoltà di Lingue e Letterature straniere ha posto il problema di una ridefinizione normativa, giuridica ed economica del loro ruolo. Tramite contatti con la Conferenza dei Rettori e con le Organizzazioni sindacali sono poste le premesse per il superamento di una condizione da tempo precaria. Questa azione va ulteriormente sviluppata e potenziata. Vogliamo contribuire a portare serenità ad una categoria di lavoratori il cui apporto riteniamo insostituibile.
Il diritto allo studio è presupposto essenziale per lo sviluppo sociale di una comunità. Esso costruisce un sistema di garanzie uguale per tutti e indipendente dalle appartenenze sociali. La passione e la dedizione agli studi deve essere liberata da costrizioni e difficoltà di ordine economico. Bisogna lavorare per far crescere il diritto allo studio incrementando gli stanziamenti per borse di studio, rendendo al massimo efficienti i servizi e allargando la fascia dei beneficiari. Vanno studiate tutte le soluzioni possibili  che permettano ai nostri giovani, tramite forme di sostegno, di studiare le lingue all’estero, per un maggiore  perfezionamento.

Scheda 2.3
Sulla sede  decentrata di Ragusa. Un impegno esplicito e fermo a potenziare quanto di positivo è stato realizzato e a progettare una fase di sviluppo.

Uno spirito pionieristico ha caratterizzato il progetto di insediare a Ragusa la facoltà di Lingue e Letterature Straniere. Nella parte più estrema e isolata della Sicilia si  è trasferita e consolidata una cospicua realtà didattico-scientifica il cui modello di integrazione e di studio ha caratteri di autentica originalità ed eccellenza. In tempi brevi si è avuta una crescita della struttura con nuovi corsi, uno sviluppo dell’organico docente e non docente, delle strutture a supporto dell’impegno di studio.
Non c’è chi non veda risultati di eccezionale entità:
– un tessuto urbano e culturale vitalizzato al punto che un intero sito urbano sembra essere rinato e rivivere in forme nuove;
– la qualità degli studi ha raggiunto standard apprezzabili;
– il coordinamento fra tutti gli enti preposti (consorzio e istituzioni) università e facoltà ha fatto ampi passi nella direzione di migliorare  qualità degli studi e servizi;
– una notevole promozione di attività culturali e incontri scientifici, di indubbio valore e respiro, aperti al territorio e alle culture mediterranee;
– una crescita continua e progressiva degli iscritti a riprova dell’ottimo radicamento della facoltà nel territorio. Per l’anno accademico 2004/2005 il numero degli immatricolati è stato di  240.
Ma si dica chiaramente: questi risultati, di per sé eccezionali, si sono potuti raggiungere per l’eccezionale impegno ed entusiasmo di quanti lavorano e studiano nell’università decentrata. Lo sforzo per quest’impresa è stato sorretto da sacrificio, responsabilità e rigore culturale. I risultati raggiunti, che sono, appunto, sotto gli occhi di tutti, vanno egualmente divisi tra personale docente, personale tecnico- amministrativo, studenti, consorzio, università, facoltà e iniziativa politica.
Una coralità di voci ha dato corpo a una struttura che oggi si qualifica per ottimi livelli raggiunti e per grande potenzialità.
Fra tutti un riconoscimento va attribuito a un giovane corpo docente: una generazione di studiosi che ha scommesso su obiettivi alti e a cui va un meritorio riconoscimento.
Ma se tutto ciò ha un senso, quanto iniziato non può essere lasciato a metà o abbandonato a se stesso: una tale volontà negativa aprirebbe la strada a un declino che rischia di dilapidare il successo finora realizzato,  aprendo prospettive di dubbia certezza.
Al punto in cui si è la sede di Ragusa non può essere lasciata in mezzo al guado. Essa deve andare avanti ponendosi obiettivi e traguardi che prospettano ulteriori successi.
– Va rafforzato il coordinamento relativo al governo della struttura universitaria a Ragusa. Attraverso  conferenze di servizio periodiche va programmata la vita e lo sviluppo della sede.
– Va potenziato il Consorzio non solo dotandolo di maggiori risorse ed efficaci strumenti di intervento ma prevedendo una graduale integrazione della facoltà. 
– Va garantita la dotazione budgetaria annuale per far fronte all’ordinaria crescita dei costi, mentre va previsto un fondo speciale per rispondere alle emergenze  che spesso si pongono.
– Va assicurata una programmazione circa le prospettive di carriera per i giovani studiosi impegnati nella didattica e nella ricerca e già maturi per avanzamenti di carriera.
– Vanno prospettate forme di garanzie di studio e di ricerca.
– Va rafforzato l’apparato tecnico e amministrativo e dei servizi per rendere più efficaci ed efficienti i livelli di studio e di impegno lavorativo.
– Va al più presto unificato, logisticamente e organizzativamente, il luogo di studio. In tal senso va accelerata la consegna della sede e di altri locali.
– Va potenziato l’apparato delle strutture, fra tutte la biblioteca, di cui va completato lo statuto, regolamentato il rapporto con la facoltà, stabilizzato e qualificato il personale che vi lavora.
– Va immaginata una maggiore autonomia amministrativa.
– Va consolidato il diritto allo studio non solo come sostegno reale dello studente ma anche come presupposto per il progresso e lo sviluppo sociale della comunità sociale ragusana.
– Va, infine, seguito con particolare cura l’insediamento del Centro di formazione linguistica permanente , consapevoli dell’importante ruolo che esso sempre più potrà assumere in futuro nel particolare contesto ragusano .  
Ma impegno costante ed attento della facoltà sarà quello di raccordare al massimo livello l’indirizzo e l’azione con la sede decentrata. Mai dovrà crescere  l’idea di una separazione fra sede centrale e decentrata o ancor peggio di una sottovalutazione o svalutazione della sede decentrata.

Scheda 2.4
Valutazioni sull’ambiente in cui si vive ma anche si lavora e studia. Quale futuro per i Benedettini e l’Antico Corso?

La nostra Facoltà è insediata in un contesto urbano ben preciso, connotato da disfunzioni e disagi. Più di una volta si sono avuti casi di furti e devastazioni, mentre intorno regna un clima di abusivismo e caos. Però si tratta di un quartiere di grandi tradizioni. Vogliamo esprimere delle valutazioni che riguardano in maniera particolare questo quartiere e il fu¬turo possibile che lo aspetta. Perché la vita di questo quartiere s’intreccia indissolubilmente con quella della nostra facoltà e con quella di Lettere e Filosofia. L’Anti¬co Corso, questo è il quartiere, esprime un bisogno estremo di giustizia sociale. Trattasi, infatti, di una zona che – come tutti sanno – non dispone di servizi di quartiere, di centri di aggregazione pubblica, di un consultorio familiare e di un asilo nido. Non dispone di piazze attrezzate, di bambinopoli, di verde pubblico. Ma soprattutto non dispone di un mezzo di contrasto agli sfratti continui (che stanno svuotando il quartiere dei suoi abitanti originari) e di un piano che ne veda il recupero in funzione di tutti coloro che l’ hanno sempre abitato. A causa, poi, dell’addensamento di strutture pubbliche dal grande valore sociale (università e ospedali), presenta un’alta congestione urbana che nuoce ai residenti e a quanti ivi lavorano e studiano.
A nulla sono valse le istanze costantemente poste agli organi istituzionali a ciò preposti: la realizzazione di un asilo nido e di una bambinopoli (questa nell’area della Purità), la formazione di un parco archeologico, la riorganizzazione del giardino dei Benedettini (via Biblioteca) in modo che venisse restituito al quartiere, la costituzione di un centro per anziani, una moratoria per gli sfratti, una vigilanza maggiore delle forze dell’ordine, parcheggi specifici.
A seguito di accordi tra l’Amministrazione Comunale e l’Università degli Studi di Catania, è stata portata avanti l’idea, derivante dal progetto dell’Arch. De Carlo, che prevede  l’istituzione e la sistemazione a giardino del tratto di area compresa tra la ex via Biblioteca, il prospetto di mezzogiorno del Palazzo Ingrassia e l’area a nord-est dell’Abbazia Benedettina di S. Nicolò La Rena di Piazza Dante. Il Comune di Catania, intanto, avrebbe dovuto provvedere all’opera primaria tendente ad abbattere il degrado in cui versava la zona, facendo installare i cancelli di ingresso su Piazza A. Riccò e su via Mascali, angolo Piazza Dante, disponendone l’apertura all’alba e la chiusura degli stessi a sera inoltrata. I risultati, tra inadempienze e modificazioni: si è in presenza di un assetto territoriale ibrido, poco funzionale e generatore di conflittualità sociale. Nell’occasione si è persa l’opportunità di arricchire la città di un altro polmone verde, con beneficio della collettività.
Altra occasione s’è persa non inserendo nella programmazione degli stalli previsti per Catania uno specifico nella zona del complesso dei Benedettini. Sicchè si continua a tradire precise aspettative: la prima volta quando nell’originario progetto De Carlo veniva previsto,a causa dell’intasamento che si sarebbe determinato così come poi è avvenuto, un grandissimo garage interrato nell’area di piazza Vaccarini e ora non prevedendo uno stallo a fronte delle reiterate istanze di quanti studiano, lavorano e risiedono nella zona. Né migliora la situazione se guardiamo all’organizzazione interna del Complesso dei Benedettini che accoglie due facoltà. Il confuso e mai chiarito ambito di giurisdizione rende difficile la convivenza didattica, scientifica e amministrativa. Si aggiunga che l’eccezionale bene culturale, dopo tanti anni risistemato, presenta una gestione centralizzata incompatibile con le moderne esigenze di tutela, fruizione e valorizzazione. Appare urgente, ormai, bonificare l’area e ridare  decoro all’intera zona, restituendone dignità e modus vivendi nuovo ai residenti, frequentatori e visitatori, per evitare l’ulteriore degrado di questa zona nobile dell’Antico Corso, una volta chiamata “Collina dei Gentili della Dea Cipria”, ovvero della Cipriana. Ma perché ciò avvenga è necessario ricreare alcuni condizioni che ristabiliscano un nuovo clima e fissare alcune priorità e alcuni bisogni per questa zona. Intanto bisognerà comprendere che l’esigenza di avere migliori condizioni di studio e di lavoro non è meno importante della lotta che i residenti conducono da anni. Bisogna saldare in una comune vicenda le sofferenze della zona per rendere vivibile il luogo e creare un clima di dialogo e di solidarietà. 
 Per questo al fine di evitare conflitti o incomprensioni va aperto un sereno colloquio con il Comitato Antico Corso mettendo al centro il  risanamento della zona per renderla vivibile e godibile e avendo per interlocutori, in modo unitario e condiviso, gli Enti Locali e l’Università. Bisogna impegnare Comune e Università a redigere, alla luce della nuova emergente complessa realtà di quartiere, un nuovo piano territoriale che metta al centro il recupero e la rifunzionalizzazione dell’area.
Va ripresa l’originaria esperienza  del Comitato di coordinamento che, originariamente, fu individuato, consensualmente dalle due facoltà, quale organo regolatore dell’organizzazione della vita interna al Complesso. Riteniamo che sia stato un errore lasciar cadere quella esperienza, i risultati negativi, infatti sono sotto gli occhi di tutti. Per questa ragione va creato un Comitato di gestione che sottragga il governo dei Benedettini alla quotidianità, all’indolenza e al conflitto di competenza. Si dovrà costituire un organo a composizione unitaria e condivisa tra facoltà di Lettere e Lingue, che programmi l’organizzazione delle attività didattiche e culturali e, vista l’importanza e il valore del bene culturale in gestione, si ponga come obiettivi la tutela, la fruizione e la valorizzazione  dell’ex Convento dei Benedettini.

Scheda 2.5
Sapere, conoscenza e autonomia al servizio dello sviluppo del Meridione e dell’occupazione giovanile

In questi ultimi decenni, al grande mutamento rappresentato in tutta l’area meridionale dal declinare della “questione agraria”, ha corrisposto il sorgere di divari interni tanto articolati e profondi da riprodursi anche fra le province d’una stessa regione. Il modello di sviluppo che ne è scaturito ha dato vita a nuove figure professionali quale risultato dell’eccezionale crescita della formazione di massa che ha investito il Mezzogiorno. Queste figure hanno finito per rimpiazzare, in genere, quelle dell’economia premoderna. Modificazioni profonde  hanno investito il costume inteso come complesso di valori, di stili di vita, di senso comune, di culture e comportamenti di gruppo. In questa direzione, notevole è stato l’avanzamento del Mezzogiorno e il suo avvicinarsi al resto del Paese, soprattutto in relazione alla generalizzazione dell’accesso alla scuola, alla maggiore e quasi capillare penetrazione dei mezzi d’informazione, dalla radio e più prepotentemente dalla televisione al prorompere ed espandersi di forme di attività culturali di massa (cinema, teatro, editoria  etc).
Sul terreno di un accentuato squilibrio territoriale si è prodotta  una progressiva diversificazione e moltiplicazione delle figure professionali che non trovano adeguato sbocco in un mercato del lavoro sempre più impermeabile, come confermano dati recenti.
Il Rapporto 2005 sull’economia del Sud d’Italia predisposto dalla Svimez presenta un dato  allarmante. Per la prima volta dopo anni il PIL cresce meno al Meridione che nel resto d’ Italia. Sicchè la forbice che si stava lentamente chiudendo, tende ad allargarsi. In altri termini per la prima volta dopo decenni l’area meridionale ha fatto segnare un tasso di crescita  inferiore a quello del Centro-Nord. L’lstat denuncia poi che i dati sulla disoccupazione meridionale sono diminuiti solo perché  molte persone non si iscrivono più nelle liste di disoccupazione, non credendo nella possibilità di trovare lavoro per questa via. A ciò si aggiunga un altro  fatto, già di per sé grave, del quale si parla pochissimo: nel corso degli ultimi cinque anni è aumentato il numero delle persone emigrate dalle zone deboli verso quelle forti. E’ un fenomeno pari a quello degli anni cinquanta. In questo contesto una specificità presenta il problema  dell’emigrazione dei laureati. Secondo i dati Svimez, il 20% di chi si laurea in un’università meridionale si trasferisce poi al Centro-Nord per lavoro. Senza contare i giovani meridionali che si trasferiscono al¬trove già per studiare. Si tratta di una dinamica pericolosa, che depaupera il Sud di risorse che potrebbero essere importanti e che sposta verso le regioni ricche parte rilevante dell’investimento in formazione fatto al Meridione.
Ancora secondo l’indagine svolta dalla Svimez, su 50.000 laureati meridionali, a 3 anni dalla discussione della tesi, il 40% è ancora disoccupato. Del restante 60%, due terzi lavorano nelle regioni di ori¬gine, il rimanente si è trasferito nelle regioni del Centro-Nord. Tirando le somme, un laureato meridionale su cinque è costretto a spostarsi per trovare lavoro, frazione che scende a uno su tre se si considera solo chi un lavoro lo ha trovato.
E’ una situazione molto grave, perché sottrae al Mezzogiorno proprio quelle figure più qualificate su cui investire in futuro per far rinascere il nostro territorio e creare la nuova classe dirigente.
Ulteriore elemento negativo consiste nel fatto che metà dei laureati che ha trovato lavoro al Sud ritiene di essere troppo qualificata per le mansioni che svolge. In altre parole, pur di trovare un lavoro, si tende ad accettare occupazioni che non richiedono il titolo di studio conseguito. 
Tutto ciò induce a pensare che le risorse del Sud sono in primo luo¬go umane. Il Mezzogiorno è infatti un’area giovane, in cui la disponibilità di capitale umano sotto utilizzato è al tempo stesso elemento di disagio sociale e fattore su cui costruire il futuro. Tanto più che gli indici di scolarità sono ormai prossimi a quelli del resto d’Italia. Non v’è dubbio che la strada obbligata passa per l’integrazione internazionale del Mezzogiorno e il posizionamento del Sud d’Italia come porta europea d’accesso sul Mediterraneo.
Indispensabile è la consapevolezza collettiva dell’inversione di tendenza che bisogna operare: lo sviluppo si ottiene investendo sulle persone, sulla conoscenza, sulla ricerca e sulle vere vocazioni del Mezzogiorno. Trattenendo i nostri giovani nel nostro territorio, utilizzando al meglio la loro professionalità. Per questa via si possono attivare soggetti, comportamenti, meccanismi virtuosi che tendano ad accelerare i tempi dello sviluppo e ottenere risultati in grado di rimuovere o modificare fattori storico-geografici fino all’altro giorno ritenuti insuperabili.

Scheda 2.6
La centralità delle lingue nel processo di integrazione dell’area euromediterranea e nella futura collocazione della Sicilia

La vasta area compresa attorno al bacino del mar Mediterraneo sarà nel 2010 un’Area di libero scambio nella quale uomini, beni e servizi potranno muoversi o essere spostati in assoluta libertà, senza soggiacere a vincoli, lacci e lacciuoli.
La Sicilia, da sempre, si trova al centro di quest’area geografica e, grazie anche a questa posizione, è divenuta, nel corso dei secoli, centro e crocevia di popoli, culture, esperienze,  civiltà. L’interesse della Sicilia, dunque, non può essere secondario.
Quella dell’area di libero scambio non è una minaccia di “negativa” globalizzazione economico-commerciale, ma un’opzione ideale e culturale per una reale crescita della Sicilia  e del suo tessuto socio-economico.
La creazione della zona di libero scambio provocherà un vasto mercato nel quale conterà soprattutto la qualità e l’efficienza con cui ciascuna nazione saprà porsi nelle dinamiche dello sviluppo economico. La Sicilia deve saper cogliere questo evento come una grande opportunità. Il più importante patrimonio che si possa impegnare sarà costituito dalla sua gente, e soprattutto dai suoi giovani, desiderosi di svolgere un ruolo attivo da protagonisti nella società di domani. La Sicilia ha giovani motivati a produrre processi innovativi in tutti i settori, capaci di sviluppare attività in grado di confrontarsi con la complessità di tutta la società esprimendo professionalità e valori che possono fare di questa vasta area in formazione uno spazio di lavoro, di giustizia, di integrazione e di pace.
La Sicilia può divenire  effettivamente il punto di snodo delle attività commerciali fra i 27 Paesi interessati dal Processo di Barcellona, ma anche il cuore di quella integrazione sociale, culturale, economica che l’Europa da tempo cerca con i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. E’ lecito ritenere che, attraverso una formazione rispondente agli specifici bisogni di internazionalizzazione di quest’ area, si possa fornire ai nostri studenti una formazione culturale e professionale che centri l’obiettivo di collocare nuove figure professionali nel nuovo mercato del lavoro, sottraendo i nostri giovani alla lunga lista della disoccupazione e creando per la Sicilia un futuro migliore.
A noi è data la fortuna di possedere un grande patrimonio di competenze linguistiche e di capacità di contestualizzazione storico-territoriale. Le conoscenze linguistiche, soprattutto, diventeranno un terreno di competitività che ci permetterà di uscire da quel provincialismo culturale che è il limite del nostro paese per proiettarci in un nuovo contesto in cui si confrontano e dialogano millenarie civiltà e una straordinaria varietà di lingue. La lingua nel nuovo scenario potrà divenire il motore di ogni attività,  un eccezionale veicolo di integrazione, di formazione e di relazioni commerciali.
Verrà a configurarsi un nuovo laureato in lingue in possesso non solo di competenze tecnico strumentali, ma capace di aprirsi  ai nuovi scenari della società.
A questo riguardo è mio convincimento che una particolare attenzione vada posta al trend del turismo siciliano, alle grandi potenzialità dell’isola sempre più meta di viaggiatori. Certo il turismo deve crescere prediligendo specificità e qualità: nell’accoglienza, nei servizi, nelle condizioni igieniche, nella cortesia, nell’economicità, nella sicurezza e nel recupero del nostro grande patrimonio urbanistico, architettonico e naturalistico mettendo al bando abusivismi e sfregi ambientali. Certo servono infrastrutture necessarie e collegamenti interni. Ma questa visione si gioca sulla capacità di comunicare coerenza e sostenibilità attraverso la tutela intransigente dei siti Unesco e del patrimonio culturale in genere. Perché la Sicilia non può fare propri modelli e progetti incompatibili con la tutela dell’ambiente e del patrimonio culturale e questo è un nodo strategico inelu

Redazione Step1

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