Aperto il sipario, il rosso continua a dominare la scena. Rossa la scenografia, rossi i costumi: protagonista è il teatro, per la commedia goldoniana L’Impresario delle Smirne, in scena al teatro Verga di Catania dal 5 al 24 gennaio 2010, con la regia di Luca De Fusco. Musiche di Nino Rota e rilettura in chiave felliniana, sono solo alcuni degli elementi che impreziosiscono la rappresentazione. Uno sguardo che va oltre il sipario, nei camerini del teatro degli anni ’50, di cui il regista racconta le beghe e gli intrighi.
Se il drammaturgo veneziano Carlo Goldoni raccontava le trame e i retroscena del teatro del ‘700, ambientando la sua storia nelle camere di una locanda, la scenografia catanese porta sul palco i camerini degli attori. Commedianti soli, davanti a specchi trasparenti che mostrano il loro vero volto e non i personaggi che si incipriano addosso.
A Venezia giunge un ricco mercante, Alì, interpretato da Eros Pagni, che vuole portare a Smirne l’arte italiana. Si improvvisa una compagnia che fa acqua da tutte le parti. Attori, poeti, ballerine e cantanti, sono tutti poveri che tentano di emergere affossandosi l’un l’altro. Le rivalità e le ambizioni da prime donne sono un affresco e una satira del sottobosco del teatro lirico degli anni ‘50. Ciascun sedicente artista pretende onorari da star, costumi sfarzosi e privilegi, ma alla fine sono pronti a pagare il viaggio a loro spese, per una scena da protagonista. L’impresario, deluso, li pianta in asso. Lascia loro un compenso che servirà a fondare la nuova compagnia e, messi da parte arrivismo e competizione, gli attori si uniranno in uno sforzo comune in nome del teatro e soprattutto delle loro necessità economiche.
Tra gli attori non emerge un protagonista, e i dialoghi sono solo un contorno alle loro esibizioni. Spettacoli che, nella rappresentazione di Fusco, guardano al passato della lirica e al futuro del tip tap da cabaret, in una miscellanea “metateatrale”. Ci si muove nel tempo, dunque, e anche nello spazio.
I personaggi, infatti, sono tutti caratteristi: la virtuosa bolognese, la giovane cabarettista toscana, l’anziana attrice veneziana. Ognuna sfodera le sue armi migliori, tentando di sedurre l’impresario turco, non indifferente al fascino femminile. Alì non capisce perché tutte si affannino ad accaparrarsi il ruolo da prima donna, ed è pronto ad assegnarlo a chiunque tra loro sia pronta a compiacerlo. Tutt’altro che onesti sono il romano conte Lasca e l’amico, il Nibbio. Il primo, innamorato della bella toscana, riesce, sfruttando la sua influenza, a farle ottenere il ruolo principale. Il secondo, l’impresario italiano che mette su la stravagante compagnia da esportare in oriente, convince addirittura Alì ad ingaggiare un finto pubblico.
I personaggi sono tutti efficacemente interpretati da un cast che annovera, oltre al noto Eros Pagni, Max Malatesta, Paolo Serra, Gaia Aprea, Enzo Turrin, Anita Bartolucci, Giovanna Mangiù e Alvia Reale.
Le musiche sono quelle che Nino Rota scrisse per la versione dell’Impresario curata da Luchino Visconti nel 1957, poi ritoccate per diventare le splendide colonne sonore dei film di Federico Fellini.
Della Dolce vita, di Otto e mezzo, della Strada, L’ impresario delle Smirne ha l’impalpabilità e il surrealismo. Evidenti le suggestioni in certi passaggi della rappresentazione, come quando l’impresario scompare dalla scena su un dondolo, elevandosi avvolto dalla nebbia. E ancora, durante tutta la vicenda, gli attori non fanno che chiedere e contrattare zecchini, ma l’impresario lascia loro dei ducati: non ottengono ciò che vogliono – così come non hanno ottenuto la turne a Smirne -, ma su quello costruiscono la loro compagnia.
In fondo, forse, l’uomo era solo un pretesto per riunire gli attori, per costringerli a contare sulle proprie forze. L’impressione è che il non detto sia più di quanto detto, e che l’impresario possa anche non esistere davvero.
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