Il dramma del restoacasa per chi ha perso un lavoro in nero «Sempre data da fare, ora mi vergogno davanti ai miei figli»

«Io resto a casa ma non mangio. Perché se sto a casa non lavoro e se non lavoro non mangio». Fino all’11 marzo Salvo aveva un’occupazione: faceva il cameriere. In nero. Giovanna, sua moglie, si divideva tra pulizie e assistenza agli anziani. Pure lei in nero. «Insieme facevamo uno stipendio, 1.200, 1.300 euro quando andava bene. Non c’erano certezze, abbiamo sempre tirato la cinghia perché non sapevamo se l’indomani saremmo riusciti ad alzarci. Bastava una malattia…». 

Oggi Salvo e Giovanna (nomi di fantasia) una certezza ce l’hanno: da venti giorni le loro entrate sono azzerate. Vivono in un paese del Catanese, hanno tre figli: il più piccolo ha due anni, il più grande è maggiorenne. Casa in affitto: 400 euro. Che per la prima volta, ad aprile, non potranno pagare. «Mai successo – racconta Giovanna – sono sempre stata una persona indipendente, lavoro da quando avevo 15 anni. E domani sarà la prima volta in 20 anni che dovrò dire al padrone di casa: non posso pagare l’affitto. Né le rate delle cose che avevamo comprato. E mi vergogno, mi sento male a essere morosa. È vero, lavoro in nero ma le cose le ho sempre pagate. Me lo ha insegnato mio padre: prima di comprare qualcosa per noi, si paga l’affitto, la luce, l’acqua, la spazzatura nonostante il servizio pessimo… Per i miei figli stringere è normalità: “Mamma devo andare a un compleanno”. “Magari vai al prossimo”». 

«Abbiamo sempre rinunciato a tutto – ammette Salvo – no divertimenti, no una cena, no una pizza perché c’è sempre stata qualcosa di più utile a cui destinare quei soldi. Pensa che per la Cresima di mio figlio abiamo festeggiato, ma per risparmiare qualcosina quella sera io ho lavorato nello stesso locale. Ero io che servivo lui…». Adesso il ristorante ha chiuso. E anche i 300-400 euro al mese che riusciva a portare a casa Giovanna sono un ricordo.

Per qualcuno chi lavora in nero non può lamentarsi, deve piangere le conseguenze della sua scelta. «È un’assurdità – risponde Salvo – perché nessuno sceglie di lavorare in nero. Ovvio che mi piacerebbe avere dei diritti, se sto male mi piacerebbe stare a casa. Ho provato a chiedere una messa in regola, mi è stato detto: “Questa è la situazione o ti sta bene o niente”. E chi ha figli che fa? dice no?».

Dopo il decreto dell’11 marzo con cui il governo Conte ha imposto la chiusura a tutte le attività di ristorazione, lo slogan #iorestoacasa per la famiglia di Salvo e Giovanna è diventato un incubo. Nessuna delle misure di supporto economico varate con il successivo decreto Cura Italia fa al caso loro. Una boccata d’ossigeno potrebbe arrivare solo dai fondi destinati da Stato e Regione siciliana ai Comuni per supportare proprio persone come loro: gente che è rimasta nel limbo di chi per le istituzioni non esiste, che non ha mai ricevuto il reddito di cittadinanza perché, in un modo o nell’altro, ha sempre fatto da sé. 

«Aiuti? Mia mamma pensionata mi ha dato 50 euro per la spesa questa settimana – dice lei – e farli bastare per cinque persone con un bambino di due anni è dura. I miei figli più grandi vanno a scuola, fanno teledidattica. Ma noi internet a casa non ce l’abbiamo, perché quei 40 euro al mese ci servono per mangiare. In poche settimane hanno esaurito i 70 giga a testa che hanno sul cellulare e abbiamo dovuto cambiare operatore. Oggi – continua – ho chiamato il Comune per fare la domandina sui nuovi fondi e mi hanno detto che se ne parla tra una settimana. Ma bisogna vedere se entro in graduatoria… io non sono mai stata ai servizi sociali, ho sempre lavorato. Stamattina la signora dei servizi sociali mi ha chiesto: vuole andare alla Caritas? Le ho risposto “No, mia mamma mi ha dato 50 euro e per questa settimana accomodo”. Non sono una che mi piango addosso, c’è sempre peggio nella vita. Ma ora mi vedo in croce, non posso aiutare nemmeno i miei figli. Se non pago la casa dove andiamo a vivere? Speriamo in Dio, letteralmente… speriamo in Dio».

Salvo Catalano

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