Il cavallo anglofono di Troia

“Il vero oro nero della Gran Bretagna non è il petrolio del Mare del Nord,
ma la lingua inglese. La nostra sfida è come sfruttarlo pienamente.”

(Rapporto annuale del Consiglio Britannico, 1987-88).

“una cosa hállo y sáco por conclusión muy cierta: que siempre la lengua fue compañera del imperio”
(Antonio de Nebrija)

 

TIMEO anglos ET english FERENTES

Che l’idioma delle genti di Albione fosse ormai imprescindibile per chiunque intenda accostarsi a qualsivoglia contenuto che vada oltre i confini del proprio orticello madrelingua, lo si era capito già da parecchio tempo.

Quanto ciò sia oggigiorno sedimentato nella coscienza comune è, al contrario, impressionante. Non è raro trovare siti web creati da italiani ma interamente in lingua inglese; blog ricolmi di citazioni e dediche in quella che pretende d’essere la “lingua universale”; non è esperienza estranea a nessuno di noi il dilagare di depliant relativi a più o meno seri corsi di lingua, dove un’enorme Union Jack campeggia fulgida, quasi ad ammonirci per il nostro pre-elementary english.

Innumerevoli le cause passate e presenti di un fenomeno di tal fatta. Solo per citare le più patenti, il connubio devastante tra lo strapotere economico-militare degli Stati Uniti e le conseguenze del colonialismo britannico nei paesi oggi aderenti al Commonwealth. 

Si cerca di insinuare che proprio la lingua inglese non sia, fra le lingue nazionali, la più adatta a svolgere il ruolo di lingua ponte? Nient’affatto. Il discorso varrebbe per qualsiasi altro idioma naturale. Impiegare una lingua nazionale come l’inglese come mezzo di comunicazione internazionale sarebbe una contradictio in adiecto: come si potrebbe pretendere che ciò non crei discriminazione, ingiustizia?

Come sostiene Robert Phillipson, nel suo ‘Linguistic Imperialism’,

[…] esiste una diseguaglianza tra gli uomini, nella comunicazione tra coloro per i quali l’inglese  costituisce la lingua materna  e gli altri, per i quali essa è straniera o la seconda lingua. Questa  disparità di comunicazione non è evidenziata quando si dice che l’inglese è una lingua ponte, poiché  questo concetto sembra presupporre una parità di comunicazione per tutti.

In uno dei suoi studi più celebri, il linguista francese Jean-Luis Calvet conia il termine ‘glottofagia’ per definire il fenomeno di erosione al quale sono sottoposte le lingue che subiscono l’attacco di altre, spesso politicamente più forti, le quali cercano di insinuarvisi fino a farle scomparire.
L’inglese che si affaccia sulla scena internazionale assume tutti i connotati del glottofago impenitente. 

Oltre a godere di uno strapotere incommensurabile a livello mondiale, la lingua di Shakespeare (e oggi di Bush e di Buckingham Palace) insedia le sue sorelle: innesta lessemi, opera accurate derive semantiche, detronizza illegittimamente termini dal posto che occupavano nella lingua “attaccata”. 

La lingua italiana non è di certo estranea agli strali anglottofagi, di cui è vittima ormai da decenni. Al contrario di una nazione, come la Spagna, che opera una vera politica linguistica di salvaguardia (basti pensare ai termini spagnoli primera dama, pirsin, supermodelo, che traducono od adattano i diffusissimi first lady, piercing, top model), l’Italia vede ridursi sempre più lo spazio concesso alla sua lingua, a favore di angloamericanismi che fagocitano la lingua di Dante, per di più senza che i suoi parlanti nativi se ne rendano criticamente conto.

Quello che spesso viene bollato come nostalgico ed anacronistico ritorno al dirigismo linguistico non è altro che una necessità, un dovere morale per chiunque creda nelle parole di Sapir e Whorf, i quali resero celebre la tesi secondo la quale ogni lingua possiede in sé una visione del mondo: ogni lingua morta o depauperata comporta dunque la morte di una cultura, di un’identità. Il poeta Ignazio Buttitta sintetizza efficacemente, nei suoi versi, ciò di cui parliamo:

[…]
un populu
diventa poviru e servu
quannu ci arrubbanu a lingua
addutata di patri:
è persu pi sempri. 
   

Una soluzione possibile

“Ciò di cui abbiamo principalmente bisogno é una lingua che sia la più semplice, la più regolare, la più logica, la più ricca e la più creativa di tutte le lingue possibili; una lingua che, in partenza, chieda soltanto il minimo dalla capacità di apprendimento dell’individuo normale e che adempia ad un massimo di funzioni; che possa servire come una sorta di pietra di paragone logica per tutte le lingue nazionali e che diventi lo strumento regolare della traduzione”. (Edward Sapir)

“… una lingua che si possa capire col semplice uso del vocabolario, nella quale sia un solo paradigma di coniugazione, di declinazione e di costruzione, in cui la formazione delle parole avvenga per mezzo di affissi posti avanti o dopo la radicale, tutti elencati nel dizionario…” (Renèe Descartes)

La soluzione? Una lingua neutrale, che non appartenga a nessuno, ma sia, al contrario, di tutti per definizione. Una lingua realmente internazionale che faciliti la comprensione fra individui di diversa provenienza, senza porre nessuno in una condizione di inferiorità rispetto all’interlocutore.

L’Esperanto, la internacia lingvo creata alla fine del XIX secolo per rispondere a tali esigenze.

Il padre dell’Esperanto, Lejzer Ludovik Zamenhof, nativo di Bialystok, sperimenta sulla propria pelle le nefaste conseguenze del dramma del pluringuismo: la città, popolata da parlanti di più di cinque idiomi (tra i quali polacco, russo, tedesco e yiddish) costituisce il paradigma di una condizione globale del pianeta, per la quale distanza linguistica equivale a distanza sociale:

“Questo luogo della mia nascita e degli anni della mia fanciullezza ha impresso il primo corso a tutte le mie aspirazioni successive. La popolazione di Bialystok è formata da quattro elementi: russi, polacchi, tedeschi, ebrei. Ciascuno di questi gruppi parla una lingua diversa e ha relazioni non amichevoli con gli altri gruppi. In tale città, più che altrove, una natura sensibile percepisce la pesante infelicità della diversità linguistica e si convince ad ogni passo che la diversità di lingue è la sola causa o almeno la principale che allontana la famiglia umana e la divide in fazioni nemiche. Sono stato educato all’idealismo; mi hanno insegnato che tutti gli uomini sono fratelli e intanto sulla strada e nel cortile tutto a ogni passo mi ha fatto sentire che non esistono uomini, esistono soltanto russi, polacchi, tedeschi, ebrei, etc. Questo ha sempre tormentato il mio animo infantile, anche se molti sorrideranno su questo dolore per il mondo da parte di un bambino. Poiché a me allora sembrava che i “grandi” fossero onnipotenti, mi ripetevo che quando sarei stato grande io senz’altro avrei eliminato questo male”.

La grammatica Esperanto è caratterizzata da un’estrema regolarità. In breve, non esistono eccezioni. In tutte le lingue naturali si trovano degli elementi non assimilabili ad una regola fissa: ad esempio, anche se il plurale del sostantivo italiano tavolo è tavoli, quello di uovo non sarà *uovi ma uova. Allo stesso modo, il participio passato del verbo inglese to look è looked, ma quello del verbo to buy non sarà *buyed ma bought.

Il parlante, in questo modo, dovrà acquisire queste singole eccezioni come elementi isolati e non riconducibili ad una regola. Ciò renderà l’apprendimento più lento e frustrante, essendo spesso contraddetto il meccanismo dell’analogia, grazie al quale vengono create nuove forme sul modello di parole già esistenti. 

In generale, si rappresenta una creazione analogica come risultato dell’applicazione di una proporzione, nel senso aritmetico del termine: 

parlare : parlatore = sviolinare : x

x = sviolinatore

Quest’ultima parola non è registrata in molti vocabolari: tuttavia, essa è perfettamente comprensibile a qualunque parlante italiano conosca il significato del verbo sviolinare.

Specialmente nelle fasi iniziali dell’apprendimento (soprattutto nel caso dei bambini che acquisiscono la propria lingua madre), sarà frequente il ricorso a forme inesistenti, inferite tuttavia da altre costruzioni linguistiche simili: in italiano *aprito al posto di aperto, in inglese *foots al posto di feet, in spagnolo *escribido anziché escrito, etc.

In Esperanto tutto ciò non può avvenire, proprio per l’estrema regolarità che ne sta alla base: una gamma di affissi intercambiabili e una grammatica formata da soltanto sedici regole consente un apprendimento rapidissimo oltre che un uso fluente e creativo.

Le ragioni di una lingua internazionale come l’Esperanto risiedono essenzialmente:
a. Nella necessità di una lingua sovranazionale, seconda per tutti, che non produca squilibri interazionali fra gli interlocutori;

b. Nella necessità di salvaguardare le lingue nazionali, e le relative culture, quotidianamente sottoposte alla glottofagia operata dalla lingua globale di turno;

c. Nella necessità di creare un mezzo di comunicazione “facile” e al contempo espressivamente completo, ruolo che sarebbe, oltre che ingiustificato, difficile da svolgere per una lingua nazionale, per definizione ricca di idiomatismi e irregolarità;

A queste esigenze appare rispondere con efficacia la lingua internazionale creata da Zamenhof. La quale aspetta solamente l’attenzione dovuta sui banchi parlamentari e fra la gente che, per varie cause, ne ignora l’esistenza.

Per concludere con le parole del famoso linguista Martinet, “l’Espèranto fonctionne”

Link:
www.esperanto.it
www.lernu.net

Daniele Virgillito

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