Iblis, parla l’ex reggente Giuseppe Mirabile «L’ipocrisia è la mamma della mafia»

«Ho deciso di collaborare perché ho dato la vita a un mondo di ipocrisia. Almeno una volta volevo fare qualcosa per mia moglie e mia figlia, che finora sono sempre state messe in secondo piano». Così Giuseppe Mirabile spiega in aula i motivi che lo hanno portato da ex reggente della famiglia criminale etnea dei Santapaola a pentito. La sua testimonianza al processo Iblis sui presunti intrecci tra politica, mafia e imprenditoria nel Catanese era tra le più attese di questa seconda stagione del processo. «Un collaboratore prezioso e perfettamente attendibile», secondo la procura. Un esponente che dal 2003 è in carcere e quindi lontano dal vero mondo criminale, secondo gli avvocati della difesa. Eppure in aula Mirabile, attraverso le domande del pubblico ministero Agata Santonocito, presenta una carrellata di personaggi, vicende e usanze di Cosa nostra etnea. Ci sono personalità da fiction – come «Salvatore Guglielmino, un killer del mio gruppo chiamato u picciriddu» -, scene di vita quotidiana – «Turi Ercolano era sempre malvestito perché Enzo, figlio di Giuseppe Ercolano, si intascava i soldi che doveva portare a lui» – e ci sono infine gran parte degli imputati.

La carriera criminale di Mirabile comincia con le rapine. Nel 1996 si avvicina al clan dei Santapaola a cui è legato da parentela: il marito di sua zia, Antonino Santapaola, è fratello del boss Nitto. Prosegue il suo ingresso in Cosa nostra al fianco dello zio, ma viene battezzato uomo d’onore solo nel 2004, durante una carcerazione a Bicocca. «Avevo solo un’imputazione per associazione mafiosa e quindi potevo uscire», spiega in aula. Già prima però, nel 2000, diventa il reggente del clan, scelto da Salvatore, Francesco e Nino Santapaola – rispettivamente il fratello, il figlio e il nipote di Nitto – «i capi liberi di quel periodo». Un ruolo che ricopre fino al 2004 e che cede prima ad Angelo Santapaola, poi a Santo La Causa e infine al triumvirato composto da Benedetto Cocimano, Daniele Nizza e Orazio Magrì. Una reggenza, quella di Mirabile, non semplice, «perché a Catania c’erano sempre contrasti per le autorizzazioni», spiega. Un mondo retto più dall’ipocrisia che dall’onore, racconta il collaboratore, da cui il collaboratore si è sentito tradito. L’ultimo anno della sua reggenza lo trascorre in carcere ma, spiega, «durante i colloqui mi facevano capire quello che succedeva e io dicevo la mia, con un linguaggio criptato che solo noi capivamo». Così come avrebbe continuato a fare fino al suo pentimento.

Mirabile racconta di due grossi gruppi di interesse: l’area cittadina di Cosa nostra e quella del Calatino, di cui fanno parte Palagonia, Ramacca e Caltagirone. A occuparsi di quest’ultima zona, secondo il testimone, sono soprattutto due personaggi: Rosario Di Dio e Pasquale Oliva. «Di Dio l’ho conosciuto in carcere quando è stato arrestato nell’operazione Iblis – spiega – Prima ne avevo sentito parlare come compare di Aldo Ercolano, mi pare che si sono battezzati un figlio, e veniva comunque rispettato come amico nostro». In carcere, il presunto boss di Ramacca sembra essere preoccupato per i politici coinvolti nell’operazione: «Era dispiaciuto per Fausto Fagone, il sindaco di Palagonia e mi disse “Meno male che non ho parlato di Lombardo” – racconta Mirabile al pm Santonocito – Vede, ai mafiosi non piace essere intercettati e nemmeno mandare una persona in carcere per una negligenza propria». Di Pasquale Oliva ricorda invece che fu lo zio Alfio Mirabile a chiedergli di «farlo camminare», e cioè favorirlo, insieme al fratello. Completano il gruppo del Calatino illustrato dal collaboratore tre imprenditori imputati nei diversi filoni del processo: Massimo Oliva, Giovanni Buscemi e Franco Costanzo. Già condannato, quest’ultimo, in primo grado con il rito abbreviato a vent’anni per associazione mafiosa. «Sono venuti anche a trovarmi nella trattoria di carne di cavallo di mio padre, in via Madonna delle Catene, una traversa di via Plebiscito – racconta Mirabile – Li minacciai per far loro capire che i soldi ora dovevano darli a noi. Ma, più che vittime, erano partecipi dell’organizzazione».

Il collaborante passa poi in rassegna il clan etneo di Cosa nostra. E racconta di Giovanni D’Urso, sotto accusa per essere il presunto mediatore della mafia nell’affare del centro commerciale Tenutelle, oggi Centro Sicilia. «Andavo alle medie con suo figlio Antonino. Di lui so che gestiva l’usura e la compravendita di auto per conto di Turi Amato, responsabile del gruppo mafioso della strada 80 palme e sposato con Grazia Santapaola, cugina di Nitto». Tra gli imprenditori conniventi, invece, Mirabile cita l’imputato Francesco Pesce. «Me lo presentarono perché si lamentava di Enzo Aiello e di come era cambiata l’organizzazione, che non aiutava più a prendere gli appalti e a investire ma era buona solo per scippare soldi». Su tutti, infine, stava quello che già per Santo La Causa era il capo: Vincenzo Santapaola, il rappresentante misterioso del clan, «con lui non ho mai avuto rapporti di mafia e nemmeno lo si doveva nominare, ma gli intimi lo sapevamo tutti che era lui il capo», racconta Mirabile. Il figlio che prende il posto del padre, facendo disperare il comune zio Antonino Santapaola, ucciso nel 2004, «che è sempre stato iperprotettivo e si è preso di collera, lo dico alla catanese, perché sapeva che Enzo si sarebbe rovinato, come poi è stato». «Senta, ma lei per caso ha un soprannome?», chiede in chiusura d’udienza il legale di Santapaola jr Francesco Strano Tagliareni. «Gli amici di infanzia mi chiamano u putiàro», risponde Mirabile. «E u puppittaru le dice niente?». «Non mi risulta, ma sarà per la trattoria di carne di cavallo». «A Catania – trattiene a stento il sorriso l’avvocato – significa “racconta balle”». Il pubblico ride forte.

Claudia Campese

Giornalista Professionista dal 2011.

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