I ragazzi alle prese con i Centri per l’impiego «Profili professionali superficiali, zero formazione»

Ne Le 12 fatiche di Asterix, i protagonisti fanno su e giù per la casa che rende folli in cerca del lasciapassare A38, e alla fine riescono a fare impazzire tutti i burocrati grazie ai propri superpoteri. Non sono così fortunati, né dotati di forze sovrumane i ragazzi che hanno provato a lavorare attraverso il programma Garanzia Giovani e sono stati costretti ad avere che fare con i Centri per l’Impiego. Anche qui viene messo in atto il cavallo di battaglia delle pubbliche amministrazioni: lo scarica barile. 

In linea di principio, i giovani avrebbero dovuto iscriversi e comunicare all’ufficio le proprie credenziali, in modo da permettere ai funzionari di trovare un’azienda che fosse in cerca di quelle prerogative. Nella pratica, nulla di così fluente. Cetty, educatrice di Porto Empedocle, Cpi di riferimento ad Agrigento, racconta che «a parte le attese interminabili e le code, colpisce la superficialità con la quale è stato tracciato il profilo professionale: giusto due domande su studi ed esperienze lavorative». Dopodiché un «le faremo sapere» che si protrae dal maggio scorso al luglio successivo, quando Cetty decide di fare da sé. «Non mi interessava fare il tirocinio coma barista o cameriera, volevo trovare un posto rispondente al mio percorso formativo. Inoltre, volevo informarmi sul mio diritto o meno a giorni di assenza, e dopo il solito flipper tra un ufficio e l’altro, un funzionario mi ha liquidato sul ciglio della porta con un lapidario: hai diritto al 30 per cento di assenze». 

Proprio il colloquio che dovrebbe delineare le competenze dei giovani e quindi individuare l’azienda adatta è uno dei nodi su cui si concentrano le critiche. «Credo fosse standard per tutti – spiega Mario, passato dal Cpi di Gela – 45 minuti per circa 30 pagine, se ricordo bene, in cui le domande erano a scelta multipla. Non mi hanno chiesto cosa volessi fare, quali particolari competenze avessi, penso perché di questi tempi non ci si può permettere di fare gli schizzinosi. Io ho ottenuto il punteggio più alto perché, così mi ha detto il tipo del Cpi, “sei uno che ha studiato”». A Rocco invece il centro di Palermo aveva trovato un’occupazione, ma è finita male. «Si trattava di un’azienda che si occupa di manutenzione d’ascensori, nonostante i miei studi in scienze geologiche, ma mi andava bene – racconta -. Solo che non sono rientrato nei tirocini attivati fino all’8 ottobre, e così sono rimasto fuori». 

Chi ha dovuto affrontare infinite visite ai Cpi sembra avere le idee chiare su cosa cambiare per rendere il sistema semplicemente più normale. «L’impegno dei dipendenti è molto, diciamo così, personale – spiega Enzo, un under 30 che si è rivolto a un centro in provincia di Caltanissetta – Se vai al protocollo trovi la fancazzista che ti perde pure le pratiche, se fai il colloquio trovi quello sbrigativo. Il problema è che ad un certo punto si prende tutto in carico una sola persona, bravissima per carità e secondo me l’unico che s’è davvero studiato il progetto. Ma ovviamente una sola persona non può seguire tutte le pratiche, perché è scontato che va in tilt». Sulla stessa linea il palermitano Rocco: «Io ho trovato persone che si preoccupano per i ragazzi e per le ragazze, li seguono per quel che possono, ma hanno due evidenti limiti: sono troppo pochi e non sono stati adeguatamente formati». Incompetenze che, secondo Mario, cominciano dall’essere «lenti col digitale, ancora legati alla carta».

Gino Pira

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