I pretacci, ovvero il Vangelo della strada

Si raccontano ventuno storie. Storie di uomini che portano il Vangelo sul marciapiede. Definiti “pretacci”, si dice facciano parte dell’“altra” chiesa: quella buona cioè, leale, “estranea alla ritualità pomposa e noiosa che non arriva al cuore della gente”. Ma perché affibbiare loro questo nomignolo? Chi sono e soprattutto cosa fanno? Ci ha risposto l’autore del libro “I Pretacci”, durante un incontro di presentazione nella Tenda di Ulisse di Ognina: Candido Cannavò, giornalista sportivo che, se in passato alcune volte si è occupato di tematiche sociali, da quando non è più direttore della Gazzetta dello Sport ha trasformato l’interesse verso il sociale nella sua attività principale. Incontri e interviste lo hanno portato a conoscere altre realtà e a “calarsi” in certi ambienti. Stili di vita diversi, “uomini pretacci” per etichetta, ma “uomini buoni” nella sostanza. Così sono nate la decisione di raccontare queste storie e il titolo del libro. «Sulle orme di quei preti che, appunto, alle parole (e alle sole prediche) preferiscono i fatti – ha detto parlando animatamente Cannavò in sala –, al pulpito preferiscono la strada, alla gerarchia preferiscono il lavoro sul campo, duro e oscuro, tra i tossicodipendenti, tra le prostitute, negli abissi della pedofilia, nei gironi della malattia, nei quartieri della povertà, della delinquenza, della mafia. E con la gerarchia spesso e volentieri si trovano in contrasto: sospettati di essere disobbedienti, di voler capovolgere i valori spirituali, accusati di peccare di protagonismo e magari di odorare di anarchia».

Ma alcuni dei “pretacci” conducevano proprio un’altra vita prima di intraprendere la strada del sacerdozio. Ecco di seguito stralci delle testimonianze raccolte. «Ricordo che a diciassette anni mi accadde un episodio stranissimo – ha raccontato don Luigi Ciotti -, all’epoca stavo per diplomarmi in telefonia e telegrafia. A un certo punto avvenne un incontro rivelatore, uno di quei casi che danno senso a una vita e a cui non si riesce a resistere». La quotidianità di don Ciotti subì una sterzata quando incontrò un barbone, ex chirurgo tormentato dal senso di colpa per aver operato, in stato di ubriachezza, una donna che morì sotto i ferri. Don Andrea Gallo, invece, era uno studente vivace quando, da allenatore di calcio, incontrò la squadra del Don Bosco e conobbe il salesiano don Piero Doveri: «Mi incantò il suo rapporto con i giovani» e «scattò la molla». E prendendo spunto da questo frammento di racconto, abbiamo chiesto a Cannavò: cosa le ha fatto scattare la molla per andare in giro ad intervistare i “pretacci”? «Anni fa ero “in cerca di senso” e allora mi affacciai su altre realtà scrivendo il libro sui detenuti e poi quello sui disabili. Due libri che durante e dopo la loro realizzazione, grazie a un processo a catena, mi hanno fatto incontrare questi preti operatori nel sociale; due libri che sono serviti in qualche modo da lasciapassare per poterli intervistare». E’ stata dura fare una cernita per sceglierne solo ventuno? «E’ stata dura riuscire ad incontrarli». Fa riferimento a Giancarlo Bregantini, Oreste Benzi, Mario Golesano, Luigi Merola, Massimo Mapelli, Antonio Fallico, Pietro Sigurani…

Lorenzo Milani è stato definito invece il capostipite al quale un po’ tutti dicono di richiamarsi. Un modello transgenerazionale; se ne ricorda anche il parroco contestatore don Luciano Scaccaglia, che con un ritratto di Che Guevara appeso nel suo studio lavora nel cuore malato della ricca Parma, dopo aver vissuto nei lebbrosari, nelle baraccopoli e nelle discariche di mezzo mondo. Ma tanti altri, meno conosciuti, hanno lavorato e continuano a lavorare nella penombra di un’attiva operosità. Uomini che credono che «il posto della Chiesa è tra i poveri», come dice padre Alex Zanotelli. Storie di battaglie vinte (e perse).

Alcuni episodi dunque sono stati letti dal regista Guglielmo Ferro, estrapolandoli dal libro, altre parole sono state proferite di persona dai tre preti siciliani in sala. Un “pretaccio” presente era Don Fortunato Di Noto, il prete siciliano impegnato contro la porno-pedofilia telematica. Ha ricordato che studiava ragioneria e aveva anche la fidanzata quando cominciò a dare ripetizioni in un orfanotrofio e lì si accese la sua luce. «Molti bambini e ragazzi violati o che hanno rischiato di esserlo possono dire grazie oggi a qualcuno che li ha aiutati, a qualcuno che li guardati e gli ha dato una speranza. La stessa che loro oggi trasmettono ad altri. In un mondo segnato dal repellente commercio dell’infanzia, della prostituzione, mali disgustosi e inaccettabili contro ragazzini o bambini piccolissimi (di pochi mesi o qualche anno) che non potranno mai alzare il telefono e gridare, a volte se questi stessi bambini, nella sfortuna di aver incontrato certi “esseri”, sono “fortunati”, incontrano qualcuno che grida al posto loro. A volte il grido è nel deserto e quella stessa persona che ha cercato di aiutarli si trova isolata e magari accusata». Ma forse aiuta ad alimentare questa diffidenza un mondo così “marcio” dove non si sa più se quello che ci cammina accanto, con un sorriso in apparenza innocuo sulle labbra, sia il nostro “assassino”?

Molte le vite di ragazze salvate dalla “schiavitù”, narrate da don Benzi nell’estate del 2007, poco prima di morire: «Lavorava di giorno e usciva di notte con il suo Vangelo in mano». O la vicenda tragica e poi felice di Rosario Fiorenza, raccontata nelle pagine su Zanotelli: Rosario era uno “scugnizzo” come tanti del quartiere Sanità, dove regnano la legge del pizzo e lo spaccio di droga, «ha salvato più di cento ragazzi, avviandoli anche a un mestiere, a un lavoro, a un’ arte». «E un altro quartiere di Napoli a rischio è quello di Forcella, nel quale il giovanissimo prete Luigi Merola ha fatto nascere un asilo per i bambini, ha creato un’area di speranza (per i molti uomini e donne che lottano e che amano la vita) che resiste ai costanti attentati della camorra. E come non ricordare il personaggio di suor Rosetta sempre in quei quartieri difficili: per 400 euro ricevute in offerta da usare per le sue opere (felice perché per lei erano tanti soldi), ha spedito al benefattore – ha raccontato Cannavò – il resoconto dettagliato composto da ricevute e scontrini che attestavano in cosa aveva speso quei soldi, in qualche modo dono di Dio». «Ma il volere di Dio – queste le parole di Mario Golesano, anch’egli ospite dell’incontro – è ovunque. A Brancaccio, quartiere palermitano ad alto rischio, Pino Puglisi diceva: “Brancaccio e la mia vita sono ormai la stessa cosa”. E per me che sono il suo successore – ha aggiunto – sapete qual è la più grande soddisfazione? Sapere che la gente mi vuole bene. Puglisi poi mi ha lasciato un problema: squattrinato lui e squattrinato io, però mi ha anche lasciato una massima: “Io nella Provvidenza ci credo”. E’ vero… Brancaccio ti può uccidere, ma a volte ti dà il cuore, come nella storia di un ragazzo, padre di famiglia, morto fulminato mentre cercava di aggiustare la lavatrice di casa sua. Arrivarono delle persone da me dopo aver fatto una colletta, la somma raccolta ammontava a circa duemila euro, e mi dissero: “Lei ora sarà il padre di questa famiglia”». «Leggendo il libro con attenzione ho provato ammirazione e commozione – ha concluso Antonio Fallico (parroco di Ognina) – perchè le storie raccontate sono palpabili. I protagonisti di questo libro sembra che ti vengano addosso, che ti dicano: fai anche tu così, opera anche tu così. Nel bene».

Stefania Oliveri

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