Avendo lavorato, a vario titolo, all’interno di corsi di laurea dedicati al settore della comunicazione sin dall’avvio della riforma Moratti (2000/01), ho avuto l’opportunità di vivere in prima persona le grandi trasformazioni che il giornalismo universitario ha subito da quasi dieci anni a questa parte. Credo sia indubbio, innanzitutto, che l’attivazione di decine di CdL dedicati all’informazione (sovente, con specifico riferimento proprio al giornalismo) in tantissimi atenei italiani abbia comportato in quest’ambito soprattutto due conseguenze: da un lato, una riorganizzazione di quelle lodevoli ma sporadiche iniziative giornalistiche sviluppate all’interno del mondo accademico; dall’altro, l’attrazione di risorse tecniche e professionali grazie a cui è stato possibile dare vita a nuove esperienze. Internet ha fatto il resto, consentendo a realtà tra loro distanti di “fare rete” e, al contempo, offrendo importanti vetrine alle testate universitarie.
Tre anni fa, tuttavia, in occasione di una conferenza sul tema svoltasi al Com.Pa. di Bologna, ho bruscamente preso coscienza di come qualcosa stesse rapidamente cambiando; del fatto che le interpretazioni dell’espressione “giornalismo universitario” si fossero moltiplicate e ramificate in direzioni tra loro assai distanti. Fu l’intervento di un collega (in realtà, un giornalista professionista docente a contratto in un’Università privata) a darmi contezza di tutto ciò. Egli, in poche battute, liquidò con scarsa eleganza i lavori presentati dagli studenti di molti Atenei (da Torino a Messina, da Modena a Bari) ed esplicitò una posizione decisamente chiara: è possibile parlare di giornalismo universitario esclusivamente quando esso prevede il coinvolgimento di… un giornalista (possibilmente professionista), il quale svolge non soltanto un compito di tutorato, ma anche di controllo dei contenuti e di omologazione degli stessi ai piani di comunicazione dell’Università che li ospita. Tracciò, insomma, una linea di confine tra giornalismo degli studenti e giornalismo per gli studenti.
Al di là dell’opinione personale sull’assunto iniziale, fu proprio il passaggio relativo ai contenuti a farmi riflettere. Se l’attività giornalistica all’interno degli Atenei, infatti, ha radici antiche e da qualche anno, come detto, è riuscita a trovare una valida sponda nei nuovi indirizzi didattici, ben più recente è l’attenzione che le singole Università italiane hanno posto – al pari di molti altri enti pubblici – sull’attività di comunicazione. In quest’ottica, sotto un profilo strettamente tecnico, nasce l’esigenza di incasellare ogni singola iniziativa informativa (ivi compreso il giornalismo degli studenti) all’interno di un unico flusso e di un preciso indirizzo semantico.
Qui, a mio giudizio, nasce il principale nodo concettuale, che oggi molte Università si trovano ad affrontare. Un argomento già messo in luce su questo sito, pur da altre prospettive, da esperti colleghi come Graziella Priulla e Salvo Scibilia: a furia di sentire parlare di Università-azienda, infatti, una parte della comunità accademica italiana sta perdendo di vista alcuni principi fondanti dell’Università stessa. Ritengo doveroso sottolineare di non conoscere l’attuale situazione dell’ateneo catanese, ma nel contempo penso che il concetto possa essere generalizzato all’intero panorama nazionale. Infatti, tenendo comunque conto di uno scenario in cui le Università hanno bisogno di “fare immagine”, soprattutto di fronte a un quadro mediatico non propriamente favorevole, occorre chiarire un punto essenziale che, tra l’altro, emerge dall’articolo “Le cinque W del giornalismo universitario” pubblicato da Step1. Il giornalismo degli studenti, quello insegnato da docenti (accademici o provenienti dal mondo del lavoro) non può tenere conto di determinate malizie. È un giornalismo in cui l’emittente è un’organizzazione – come si evince da ciò che hanno scritto Gianfranco Faillaci e Roberta Marilli – il cui obiettivo primario è costituito dalla qualità del prodotto finale. In cui non possono esistere le linee editoriali, nel quale l’obiettività rimane una direttrice determinante. Chi ha frequentato in maniera più o meno assidua una redazione, sa benissimo in quale misura questi elementi vengano gioco forza a cadere man mano che si scalano i gradini della professione. Conosce quanto un’informazione di carattere commerciale (o, addirittura, politico) finisca con l’essere dicotomica rispetto al traguardo dell’oggettività.
Pensare, come faceva il collega intervenuto a Bologna, agli studenti-giornalisti in chiave di soldatini da inserire in meccanismi di produzione routinaria, sfruttandoli per validare messaggi rivolti a loro colleghi o ad altre componenti universitarie, prima ancora che ingiusto o diseducativo è semplicemente impossibile. Non ne sarebbero capaci e non è compito dell’Università insegnarglielo. Non è soltanto un problema valoriale, infatti, ma ancor più semplicemente una difficoltà didattica. Si pensi, ad esempio, alla presenza in moltissimi corsi della classe di Scienze della Comunicazione di una materia quale Etica dell’Informazione; si rifletta sugli inviti dei docenti ad approcciare i libri di testo con spirito critico, a elaborare lavori di tesi confrontandosi in modo aperto anche con pensieri scientificamente consolidati. In questo senso, il giornalismo universitario costituisce una palestra insostituibile per applicare determinati concetti: è slegato da quelle logiche tipiche dell’industria culturale, garantisce anche dei margini di errore (non a caso parliamo di percorsi di formazione). Può (deve) fornire agli studenti, dunque, un metro di giudizio, grazie al quale, una volta inseriti nel mondo del lavoro (non solo nel comparto dell’informazione), essi potranno valutare quanto e come operare una negoziazione tra strategie aziendali e onestà intellettuale.
L’Università ha il compito di formare questa tipologia di professionisti e non stenografi capaci di tradurre e rendere appetibile un comunicato stampa. Se così non fosse, si continuerebbe ad alimentare l’equivoco dell’Ateneo-azienda, in grado di sfornare manovalanza (seppur di alto livello) e non cervelli.
* Docente di Sociologia della Comunicazione – Università degli Studi di Messina
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