Finzioni d’amore e libertà

Sono nata nel 1978, da due giovani comunisti. L’8 marzo mamma mi portava alle manifestazioni per la festa della donna. Adoravo soprattutto i rametti di mimosa appuntati sui baveri delle giacche, i manifesti dell’Udi che sembravano fumetti colorati e la canzone dell’oliolà.

Ogni santa volta, a un certo momento, immancabilmente, una delle compagne più anziane intonava: “Sebben che siamo donne paura non abbiamo, abbiamo delle belle buone lingue e ben ci difendiamo” e le altre le andavano dietro. Per qualche momento sembrava che Catania fosse un’unica femmina. Un anno, lungo il corteo, un gruppetto fece un gesto che non capii, alzando le braccia e unendo tra loro pollice e e indice delle mani a formare una specie di rombo. Alla mia richiesta di chiarimenti, mamma rise e una sua amica mi disse che quel gesto significava “libertà”, ma che si poteva fare solo da grandi. A me però piaceva troppo e lo facevo nella mia cameretta davanti allo specchio, quando nessuno guardava.

Che ognuna nella vita dovesse fare come le pareva senza che gli altri, gli uomini soprattutto, si aspettassero di essere al centro del mondo lo compresi solo molti anni più tardi, a San Berillo, in una fredda mattina di marzo. Ero lì per un reportage sulle prostitute che il Comune aveva sfrattato dai bassi dove lavoravano. Una mi colpì particolarmente. Si chiamava Maria. Stava davanti alla porta sbarrata da un grande lucchetto fiammante, insieme a un’altra donna. Mi raccontò sorridendo che la sera prima s’era fatta fare un doppione della chiave. Apriva, saliva, scendeva e richiudeva, in attesa del prossimo cliente. “Io da qua non me ne vado”, esordì e mi sorrise, iniziando a raccontarmi la sua storia: “Mi sono sposata giovane, lavavo le scale e quello si beveva tutto quello che portavo a casa. Non avevo i soldi neanche per comprarmi un paio di mutande al mercato. Stavo ancora con lui quando ho iniziato a fare questo mestiere. E mi sono liberata. Oggi ho tre figli grandi, sposati. Potrei ritirarmi, vivere a casa di uno di loro. Ma continuo. E le mutande le compro ai miei nipoti. Ho incontrato altri uomini, gli ho fatto girare la testa, li illudevo che potessero diventare “gli unici”. Ho sempre preferito così”.

Da quella donna davanti a un basso sprangato ho imparato che si può fingere pure d’amare per amore di libertà. Libertà di vivere come si vuole, vestite di griffe in via Olgettina o mutande della fiera a San Berillo. E di usare il proprio corpo come meglio si crede. In verbali e intercettazioni dell’indagine che riguarda il Presidente del Consiglio a perdere la dignità molto più di quelle ragazze sono gli altri. Sono i sensali che le considerano come stock di quarti di bue da consegnare all’insaziabile sultano e sono soprattutto i padri, le madri, i fratelli. Che si riempiono la bocca d’”amore”. Una parola che su quelle labbra suona come una bestemmia.

“Quelle poverette non sono libere”, scolpisce sulla pietra delle sue certezze una collega 50enne in tv. E invece è libera la laureata che fa la cameriera al pub a 20 euro a sera? E’ libera la 35enne professoressa precaria con figli costretta a lavorare a centinaia di chilometri di distanza dal marito, precario anche lui? O quella che si sposa con un ricco professionista invece che con l’amore (disoccupato) della sua vita? O ancora quella che studia e s’ammazza per specializzarsi, per stare sempre un passo avanti agli uomini e ottenere la metà di quello che ottengono loro? E’ libera chi si fa raccomandare per un posto di lavoro che merita?

E’ vero. Oggi più di ieri siamo libere di non accettare compromessi, di mandare al diavolo chi ci dice “meglio così che niente”, di non ballare a seno nudo davanti a un vecchio laido per passare all’incasso dal ragioniere di turno. Siamo libere, perfino, di prendere una valigia e scappare da questo Paese. La libertà quella vera, però, è un’altra cosa. E siamo incazzate con chi ci ha cresciuto con l’idea che non c’era che da desiderare quel che si voleva. In realtà, care donne che oggi vi dichiarate “sgomente”, avreste dovuto avvisarci: desiderate, sì, ma solo quello che si può.

Ci si stupisce che le ragazze intercettate abbiano ambizioni così infime, come un passaggio in tv e vestiti firmati, ma non ci si indigna per le migliaia di giovani promettenti costrette a rinunciare ai sogni a vent’anni perché non hanno i mezzi economici né le conoscenze giuste. Del resto, la famosa amica con due lauree di Nicole Minetti che si ritrae disgustata dopo il festino perché era andata lì? In cerca di un “aiutino” per la carriera. Non era lo stacchetto di Colorado Cafè che le interessava, ma magari il tirocinio in un grosso studio legale o entrare in politica, chissà… Aspirazioni che ancora nel 2011 se sei una donna, in Italia, sono fuori dalla tua portata molto più che una comparsata in tv. “In fin dei conti il letto non è la cosa peggiore” ha scritto una volta Natalia Aspesi. Non le do torto, in un mondo dove c’è chi, maschio o femmina che sia, è disposto a passare sul cadavere della madre per “arrivare”, dove la cooptazione vince sul merito, selezionando da decenni una classe dirigente di uomini inadeguati. Dicono le disilluse che mettendo al loro posto le donne le cose non cambierebbero, perché il potere corrompe chiunque. Be’, arrivati a questo punto, penso proprio che varrebbe la pena rischiare.  

Ma dobbiamo essere noi donne di 20 e 30 anni a crederci per prime, profondamente, prima di tutto guardandoci allo specchio e poi parlando. Ché la lingua serve soprattutto a questo.

Ps: Lanciando una raccolta firme il direttore de l’Unità, Concita De Gregorio, ha scritto: È il momento di rispondere forte: dove siete, ragazze? Madri, nonne, figlie, nipoti, dove siete. Di destra o di sinistra che siate, povere o ricche, del Nord o del Sud, donne figlie di un tempo che altre donne prima di voi hanno reso ricco di possibilità uguale e libero, dove siete? È il momento di dire: «Ora basta».

Un tempo ricco di possibilità? Uguale? Libero? “Ora basta”, lo diciamo noi. Voi però risparmiateci moralismo e retorica. Per pietà.

Roberta Marilli

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