Eutanasia, ovvero la “dolce morte”

Da qualche giorno è riaffiorato alla cronaca un argomento tanto scottante quanto delicato: l’eutanasia, o il diritto a morire. Il caso Welby e il discorso del presidente Giorgio Napolitano hanno dato un’accelerazione al dibattito politico, mentre l’opinione pubblica si divide e manifesta forti dubbi e perplessità riguardo a nozioni non sempre di comprensione immediata. Ma in questo acceso confronto, c’é una “bussola” che dovrebbe guidare ogni scelta: la volontà dell’individuo, unico e vero spartiacque in un terreno così spinoso.

Per Eutanasia, che etimologicamente significa “buona morte”, secondo la Dichiarazione della S. Congregazione per la Dottrina della Fede, s’intende: “un’azione o una omissione che di natura sua, o almeno nelle intenzioni, procura la morte allo scopo di eliminare ogni dolore”.  A questa definizione andrebbe integrata la questione della “dignità”, intesa come rispetto che ciascuna persona ha nei confronti di se stessa. Questo concetto diventa sempre più pregnante ai nostri giorni dato che, nel mondo occidentale, almeno l’80% delle morti avviene non più a casa propria e tra l’affetto dei congiunti, ma in ambiente ospedaliero, spesso caratterizzato dall’isolamento e dalla solitudine dell’ammalato.

Il problema non è specifico della nostra epoca; da sempre i medici hanno dovuto farvi fronte, incontrando pazienti che chiedevano loro di essere aiutati ad anticipare la propria morte. E’ per questo che il “giuramento d’Ippocrate”, a cui ogni dottore in medicina presta fedeltà, cita: “Non somministrerò ad alcuno, neppure se richiesto, un farmaco mortale, né suggerirò un tale consiglio”. Mentre nell’era moderna il sovversivo medico e filosofo inglese Francesco Bacone scriveva che era altamente desiderabile che i medici imparassero “l’arte di aiutare gli agonizzanti a uscire da questo mondo con più dolcezza e serenità”. Tuttavia i tempi sono mutati ed il progresso, in concomitanza con il miglioramento delle condizioni e delle aspettative di vita, ha condotto a situazioni diversamente gestibili. Oggi, infatti, si muore più tardi e non più per malesseri acuti, ma per malattie croniche e degenerative, spesso legate alla vecchiaia. La medicina è in grado di tenere in vita un paziente indefinitamente e, comunque, ben oltre il punto in cui si può ragionevolmente dire che si sta prolungando la vita e non, invece, procrastinando inutilmente la morte.

L’eutanasia è diventato quindi un argomento sempre più attuale. Ne esistono diverse forme: attiva (attraverso la somministrazione da parte di soggetti terzi di determinate sostanze), passiva (che prevede la sospensione del trattamento medico) e la variante del cosiddetto “suicidio assistito”, che si verifica quando un medico o un’altra persona fornisce del veleno ad un ammalato, che ne abbia fatto richiesta, ed assista a che esso venga ingerito dal richiedente, senza prestare alcuna collaborazione. Quindi, il dilemma non investe soltanto l’aspetto etico, morale e filosofico del singolo malato, proprietario del proprio corpo, o degli operatori sanitari (che possono rispondere o meno alla disperata invocazione d’aiuto da parte dei sofferenti), ma riveste anche un aspetto giuridico che riguarda sia il legislatore (punibilità o meno di chi presta la propria opera) che i responsabili delle varie categorie professionali, nonché le commissioni nazionali per i diritti dell’uomo e dell’ammalato. A differenza di vari paesi europei (come Olanda, Belgio, Danimarca e Germania per particolari casi) dove essa viene permessa, in Italia l’eutanasia è un reato; è consentita soltanto la sospensione del cosiddetto “accanimento terapeutico”, cioè di quei provvedimenti assistenziali, strumentali e medicamentosi, tendenti a prolungare artificialmente la vita, anche in assenza di qualsiasi speranza di guarigione o sopravvivenza.

Il recente caso di Piergiorgio Welby e il suo appello rivolto al Presidente della Repubblica hanno suscitato il fermento al Parlamento e polemiche all’interno di entrambi gli schieramenti politici. Tra Camera e Senato sono ben 8 i disegni di legge presentati sull’argomento e tutti rigorosamente bipartisan. “Penso che le parole del Presidente siano all’altezza di un problema drammatico e che vadano ascoltate”, ha affermato Fausto Bertinotti mentre Franco Marini risponde di muoversi nella direzione del “testamento biologico”. Quest’ultimo, anche conosciuto come “Dichiarazioni anticipate di trattamento”, prevede che il soggetto, capace di intendere e volere, possa indicare le opzioni terapeutiche possibili (ad eccezione dell’eutanasia) in caso si trovi in stato di incoscienza. Il Testamento non è vincolante per il medico, che può decidere di non rispettare le indicazioni date motivandone le ragioni nella cartella clinica del paziente. Si prevede anche la possibilità di indicare un “fiduciario”, cioè una persona (parente, convivente, amico o anche lo stesso medico di famiglia) alla quale l’ammalato vorrà affidare la cura dell’attuazione delle volontà e dei desideri espressi nella dichiarazione.

I politici riuniti a Palazzo Madama discuteranno riguardo al da farsi, ma nel frattempo la solita invivibile vita continua a scorrere per Welby, co-presidente dell’Associazione Luca Concioni. Piergiorgio ha 60 anni, malato di distrofia muscolare da quando ne aveva solo 16, è costretto a letto da due mesi e mezzo, senza poter comunicare né muoversi autonomamente ed è giunto a chiedere il permesso all’eutanasia. “Più che della morte, ho paura di questa vita”. Lancia così un messaggio di salvezza. Alla domanda “cos’e’ la vita secondo lei?”, risponde: “Se lo sapessi, non lo direi. Ma quel che e’ certo e’ che ognuno deve dargli il senso che desidera”. E aggiunge: “Non ritengo che richiedere o praticare l’eutanasia sia un affronto verso Dio, e pur essendo una pratica ancora illegale in Italia sarei pronto a disobbedire alla legge e a chiedere al mio medico di fare altrettanto. Si tratta di un gesto che andrebbe a favore di molti altri cittadini”.

In effetti, uno dei fronti più ancorati riguardo al tema è la dottrina Cattolica che muove da punti fermi quali: il riconoscimento del carattere sacro della vita dell’uomo in quanto creatura; il primato della persona sulla società; ed il dovere dell’autorità di rispettare la vita innocente. La Chiesa ammonisce: “Non sia un cavallo di Troia per aprire le porte alla dolce morte che è sempre un assassinio”. Ma l’appello lanciato da Welby non può passare inosservato, inascoltato.

“Mare dentro, nell’alto mare – dentro senza peso nel fondo dove si avvera il sogno…”. È così che si chiude la vita del marinaio Ramón Sampedro, tetraplegico spagnolo, che combatté a 30 anni la campagna in favore dell’eutanasia, romanzata dal regista Alejandro Amenábar. Nello sfondo una distesa blu, l’orizzonte che si avvicina e il mare che affiora come un sogno. Lenti si sentono i suoi versi di un viaggio nel dolore e nel senso della parola vita. Mare dentro costringe lo spettatore a pensare non alla morte ma piuttosto a quella somma di gesti, emozioni, sentimenti, amore che sono la vita. Ed è questo che auguriamo a Piergiorgio.

Benedetta Motta

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