Etna Rail, i dubbi sul progetto della monorotaia L’esperto: «Rischio che rimanga un’incompiuta»

«Non mi vengono in mente soluzioni simili in Italia. Un project financing con un investimento così alto da parte delle amministrazioni pubbliche fa riflettere. Non converrebbe che i Comuni si facessero la monorotaia da sé?». Matteo Ignaccolo è docente di Trasporti all’università di Catania e per lui il progetto di Etna rail, la metro leggera che dovrebbe costare 550 milioni di euro (l’80 per cento pubblici, il 20 per cento privati), è un inedito nel panorama nazionale. Non tanto per l’idea della monorotaia in sé, quanto per il fatto che un sistema di trasporto pubblico venga proposto da aziende private. Come le sei società – internazionali, nazionali e locali – che hanno ideato e proposto ai Comuni della città metropolitana di Catania il tracciato avveniristico per collegare la città con Pedara, Mascalucia, San Gregorio, Gravina, Tremestieri e San Giovanni la Punta. Ditte che, in alcuni casi, hanno fatto parlare di sé tra giornalisti e magistrati. Come il colosso delle costruzioni Maltauro. E le due ditte etnee Fcf e Betoncat, riconducibili alla stessa persona, coinvolta a Genova in un’indagine per corruzione e frode in pubbliche costruzioni.

«È molto difficile prevedere come evolverà, dal punto di vista economico, un sistema di trasporto pubblico. È più semplice, invece, per altre infrastrutture. Coi parcheggi si fanno ipotesi di entrate più certe», dice Ignaccolo. Etna rail dovrebbe migliorare la mobilità nella città metropolitana che verrà e incidere «in maniera sostanziale sull’intero territorio catanese». Per questo motivo «serve il parere favorevole di tanti Comuni e va fatta una pianificazione approfondita sul territorio». Elementi che renderebbero difficile la realizzazione dell’intera struttura nel tempo previsto: tre anni. «All’estero o in altre città d’Italia siamo abituati a vedere realizzazioni portate avanti in tempi ridotti. Qui, invece, è esattamente il contrario», prosegue il professore. Nello specifico, a complicare l’iter della monorotaia potrebbe essere «l’individuazione dell’interlocutore: la Provincia non esiste più e la città metropolitana non è ancora partita. Sicuramente, poi, dovranno riunirsi tutti i consigli comunali. Per fare un esempio: se ci fosse una stazione in una piazza di Gravina, allora in quella strada dovrebbe cambiare la viabilità. Non si può calare una struttura dall’alto e lasciare tutto immutato. Si deve fare pianificazione integrata».

Oltre che coi Comuni, poi, c’è da parlare con l’ateneo di Catania che dovrebbe dare il suo parere sul progetto. «Allo stato attuale non ci è arrivata nessuna richiesta», risponde Giuseppe Inturri, delegato del rettore per la Mobilità. «Un paio di anni fa la Catania Monorail è stata illustrata all’ateneo, ma all’epoca io non ero presente all’incontro quindi non so se ci sono state variazioni – continua Inturri – Immagino che dovremo aspettarci una formale richiesta di autorizzazione all’attraversamento delle zone della Cittadella. In ogni caso, un eventuale parere negativo dell’ateneo non impedirebbe al progetto di muoversi su via Santa Sofia». Passando accanto al polo universitario invece che in mezzo. «L’università ha sempre avuto interesse nei collegamenti tra la stazione metropolitana Milo e la Cittadella, per favorire l’accesso agli studenti e agli utenti del policlinico – gli fa eco Ignaccolo – Ma partire da Milo e non smistare la popolazione all’interno del polo universitario non avrebbe senso». Anche se, naturalmente, dovranno essere tenuti in considerazione tanti fattori: «Se soluzioni devono essere trovate e devono avere un impatto minimo sul campus. E non mi riferisco solo, per esempio, all’impatto sonoro. Non possiamo permettere che venga cementificata la Cittadella».

Ad alimentare i dubbi dell’esperto, poi, ci sono i numeri. Quell’80 per cento di finanziamento pubblico che sarebbe necessario per la realizzazione dell’opera. «Se venisse confermato che l’investimento a carico dei privati è solo del 20 per cento sarebbe rischioso. Il project financing si basa sul fatto che i privati abbiano interesse a mantenere attive e funzionanti le strutture costruite per recuperare i soldi spesi, ma se i soldi li spende tutti un’amministrazione pubblica?». Potrebbe essere questo uno dei motivi per i quali il project financing difficilmente viene applicato al trasporto pubblico: «Di solito sono sistemi in perdita. Il più delle volte i costi di gestione non vengono coperti dalle tariffe», afferma Matteo Ignaccolo. Che conclude: «Quando i privati si impegnano a fare qualcosa per il pubblico bisogna considerare bene tutte le prospettive. Il rischio, in questo caso, è che ci troviamo davanti all’ennesima infrastruttura lasciata a metà. O, peggio, abbandonata dopo essere stata finita. Possiamo permettercelo?».

Luisa Santangelo

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