«La colpa è di chi ha acconsentito volgendo lo sguardo altrove. Ognuno deve fare la propria parte. Questo è l’equivoco che ci siamo trascinati negli anni». Claudio Fava, nel presentare il suo ultimo libro – “I disarmati”, edizioni Sperling & Kupfer – punta il dito verso il disinteresse nei confronti dell’antimafia: «Si aspetta sempre che siano le istituzioni a dare un colpo di scopa alla mafia. Ma finché la Magistratura non farà il suo lavoro, il giornalismo non racconterà la verità e la politica continuerà a fare passi indietro senza affrontare la situazione, non andremo da nessuna parte».
Il senso di responsabilità professionale è il filo che attraversa tutto il dibattito, a cui partecipano Giuseppe Scatà – giornalista di ‘U Cuntu, I Cordai, La Periferica – e Antonio Condorelli, giornalista indipendente che ha collaborato con Sigfrido Ranucci all’inchiesta di Report “I Viceré”. Proprio Condorelli ne evidenzia l’importanza: «Assumersi queste responsabilità vuol dire aiutare il nostro futuro, perché non è un caso se dobbiamo andare in ginocchio a chiedere un lavoro, se i diritti vengono annullati, se cose che accadevano vent’anni fa accadono ancora oggi».
Un meccanismo che una volta acceso potrebbe cambiare le cose, in cui anche i cittadini devono prendere parte chiedendo qualcosa di più all’informazione. «Quando Tony Zermo – racconta Fava – scrive che La Sicilia è un giornale che ci permette di conoscere gli orari dei cinema, i morti del giorno e le notizie sul calcio, in realtà ci sta dicendo che questo giornale è ciò che vogliamo, che questo è per noi il senso del vivere civile». Ecco che quando i giornali non lasciano spazio all’analisi antimafia, nasce l’esigenza di scrivere un libro. «La scrittura è lettura delle cose – continua – e quello che manca nell’informazione di oggi è un racconto chiaro e lineare di come tutto sia potuto accadere».
Giuseppe Scatà ribadisce: «Con il libro riusciamo a comprendere bene di cosa stiamo parlando. Siamo abituati ad una informazione spezzettata che non dà una visione di insieme. Una informazione che distrugge la memoria e la ricostruisce solo a brandelli, senza un filo logico che ricolleghi le vicende».
Il libro di Claudio Fava punta la lente verso la zona indefinita dell’indifferenza, mettendo a fuoco le occasioni perdute ogni volta che gli sguardi hanno preferito voltarsi dall’altro lato, per paura o assenso, deponendo le armi e lasciando che la mafia prendesse il controllo. «Questa – dice ancora Fava – è una generazione che si è disarmata da sola, sin dai tempi in cui la cultura politica ha liquidato Pio La Torre ed eletto i mafiosi come dialoganti per lo sviluppo economico». Così come nel libro, tanti sono i casi raccontati durante la presentazione all’Auditorium De Carlo, a partire dall’omicidio di Mario Francese fino alla storia di Concetto Mannisi, giovane giornalista che negli anni Novanta – pubblicato un rapporto dei carabinieri in cui si denunciava il boss Giuseppe Ercolano – viene chiamato nella stanza dell’editore Ciancio. «In presenza dello stesso Ercolano – racconta Fava – Ciancio fa un sonoro “cazziatone” al ragazzo. E quando Mannisi si giustifica dicendo di aver solo riportato ciò che hanno scritto i carabinieri, l’editore risponde che il lavoro di un giornalista non è fare il carabiniere». Storia vera, assicura Fava, vissuta però come una leggenda metropolitana.
Parlare di Ciancio e del buco dell’informazione, però, vuol dire anche parlare dell’inchiesta su Catania di Report. A questo proposito, Scatà dice: «Il problema è stato che anche chi non dovrebbe inchinarsi di fronte a Ciancio si è sentito in obbligo di dare addosso a Report, quando Report non ha fatto altro che raccontare come stanno le cose».
Un passaggio dell’intervento di Fava riguarda la convenzione tra l’Università e “La Sicilia” «In questa convenzione ho sempre visto alcuni elementi di controluce che vanno oltre la muta verità delle cifre. In fondo, fare giornalismo è forse il mestiere più facile del mondo perché basta guardare fuori dalla finestra per trovare storie in cerca di autore. E per raccontarle può bastare anche un sito fatto da studenti universitari». Per sottolineare, poi, l’importanza dell’informazione libera, racconta: «Nel ‘76, a Cinisi, era sufficiente una piccola radio dal raggio di 4-5 chilometri per lasciare il segno. L’educazione al silenzio che in quegli anni è stata imposta persino al maresciallo dei carabinieri, non riusciva a passare attraverso quel gruppo di ragazzini». Anche le cose “povere”, secondo Fava, sono sufficienti a raccontare: «La verità è che basta un piccolo giornale, anche di quartiere o universitario, o un’ora di trasmissione per dire che il re è nudo. Trent’anni fa si poteva ottenere silenzio e obbedienza più facilmente, oggi non si può fare altro che rispondere con una serie imbarazzante di letterine».
Tempi che cambiano, forse. Un altro esempio è Addiopizzo. Claudio Fava ricorda che alla presentazione dell’associazione Libero Futuro il Teatro Biondo di Palermo era quasi vuoto. «Accade poi – continua – che un gruppo di universitari inventino qualcosa, il volantino di Addiopizzo, e il giorno dopo è la rivoluzione. Una città abituata a fingere pubblicamente che tutto vada bene, si ritrova appiccicata sui muri, sui lampioni, sulle saracinesche dei negozi che “un popolo che paga il pizzo è un popolo senza dignità”. Lo scandalo, a quel punto, diventa una valanga difficile da fermare».
La necessità dell’impegno civile sta nelle parole di Antonio Condorelli, che dice: «Nello spazio che divide la mafia e l’antimafia ci stiamo tutti. Dovremmo rendercene conto. I catanesi, pur sapendo cosa è accaduto in questi anni al bilancio del comune, si sono sentiti dire una sequela di ammissioni e smentite fino ad un articolo che parlava delle eccellenze cittadine». Sembra però che un fatto, se non raccontato, non esista. «È necessario parlare, invece, anche quando tutto sembra prestabilito – continua Condorelli – perché il silenzio vuol dire favorire le speculazioni, la corruzione. Significa permettere che qualcuno manipoli l’informazione decidendo le sorti della città».
Il peso del silenzio è ciò di cui parla anche Walter Rizzo, ex redattore di Telecolor, in un breve intervento: «La colpa è dei politici che non hanno detto niente quando io ed altri cinque colleghi abbiamo perso il lavoro solo perché non eravamo disposti a dire “signorsì”. Bisogna parlare non solo dei giornalisti morti – conclude Rizzo – ma anche di quelli vivi, perché sfidare Ciancio si può, nonostante ci sia un prezzo da pagare».
Una dimostrazione davanti a bambini e bambine dell'asilo con colpi di pistola e la simulazione…
Rinviati a giudizio con l'accusa di depistaggio. Giuseppe Di Gangi, Vincenzo Maniscaldi, Angelo Tedesco e…
Avrebbe accoltellato un 19enne perché quest'ultimo ha offerto una sigaretta alla sua fidanzata. Un 16enne…
Incidente stradale sulla strada statale 188, all'altezza di Castronovo di Sicilia, nel Palermitano. Nello scontro…
Mettiamo in circolo le buone abitudini. Il riciclo delle bottiglie in Pet è fondamentale nella…
Nuovo furto con spaccata a Palermo. Stavolta a subire il furto è stato il locale…