Depistaggio via d’Amelio, 27 anni di reticenze e bugie «Cosa nostra non si distingue dal panorama siciliano»

«Perché un ragazzo di oggi dovrebbe avere paura della mafia?». È una domanda che ripete più volte Claudio Fava. Da giornalista, prima ancora che da presidente della Commissione regionale antimafia, sa bene quali corde toccare per sollecitare l’attenzione della platea che lo ascolta, in rigoroso silenzio, a Palazzo Steri. A lui sono affidate le conclusioni del dibattito che si è tenuto oggi nell’ambito del Master Apc, nato da una convenzione fra gli atenei di Pisa, Torino, Napoli, Palermo e l’associazione Libera. E Fava non poteva non concentrarsi anche sugli ultimi sviluppi giudiziari, che riguardano i consueti collegamenti tra mafia e politica – questa volta tra il partito della Lega, che ha visto arrestati l’altro giorno il suo consulente per l’energia Paolo Arata, e l’imprenditore Vito Nicastri, ritenuto vicino al boss di Castelvetrano Matteo Messina Denaro.

«La mafia di oggi è quella di un prestanome che spalanca con un calcio la porta di un assessorato e che va a pretendere concessioni e licenze affinché il capo della mafia possa investire i suoi denari nell’economia legale – ricorda Fava – Fa meno paura questa mafia, e si fa più fatica a distinguerla. La mafia di oggi invece produce consenso. Ma chi era Vito Nicastri? Ricordo che due giorni fa è stato nuovamente arrestato. Ma già 15 anni fa la Dia gli aveva sequestrato un patrimonio di un miliardo e 300 milioni di euro, con 43 società a suo carico. Le indagini delle procure di Palermo e Trapani già 15 anni fa dicevano che Nicastri era il braccio elegante e imprenditoriale di Matteo Messina Denaro, per investire in quei settori che oggi producono reddito immediato come le energie alternative. Ricordate nel 2013 Totò Riina che in un’intercettazione in carcere ce l’aveva col boss di Castelvetrano perché invece di occuparsi di Cosa nostra metteva i pali? Siamo cioè di fronte non solo a un passaggio di testimone dal punto di vista mafioso ma di cultura politica e imprenditoriale». 

Per il presidente della commissione antimafia, dunque, si rinnova il concetto che vuole la mafia tanto più forte quanto più invisibile. «È lo stesso Matteo Messina Denaro che ha capito che Cosa nostra è diventata parte del panorama siciliano, così tanto che non puoi più distinguerla dal resto – afferma – Procura lavoro, fa girare economia, crea consenso. E d’altra parte uno Stato che per 27 anni si trascina una verità turbata, malata, da sospetti e reticenze e complicità, deve recuperare la forza morale. E non si possono aspettare le sentenze della magistratura. Fino a quando si continuerà a far credere che il giudice Paolo Borsellino sia stato ammazzato dalla mafia per vendetta, in quella che è una narrazione assolutoria, non si potrà andare avanti. Invece è andata diversamente: c’è un giudice che è stato ammazzato dalla mano armata dalla mafia perché c’è una congiuntura e un’urgenza. La sua morte infatti determinò una svolta politica nella repressione dello Stato. Senza la sua morte il decreto sul carcere duro ai mafiosi, che doveva essere convertito entro il 7 agosto, non sarebbe mai diventata una legge. Chi ha gestito il depistaggio di via d’Amelio ha accompagnato la mano di chi quella strage l’ha commessa».

Tra i relatori al convegno c’era anche Fiammetta Borsellino, figlia del magistrato ucciso il 19 luglio 1992. Che invece ha parlato soprattutto del depistaggio sulla strage di via d’Amelio, per i quali la procura di Messina ha da poco indagato due ex pm del pool che investigò sull’attentato, Carmelo Petralia (oggi alla procura di Catania) e Annamaria Palma(avvocato generale a Palermo). «Quanto accaduto sicuramente è un tassello, ma costituisce un punto di inizio di un percorso difficile – ha spiegato – perché chi ha lavorato male ha compromesso quasi per sempre la possibilità di compimento di questo giusto percorso di verità, quindi ha una responsabilità morale gravissima, morale prima di quella giudiziaria. Fa male sapere che a essere indagati siano dei magistrati come lo era mio padre, è ovvio che fa male, ma sappiamo benissimo che in questo Paese delle cose si compiono anche perché all’interno delle istituzioni, della politica, e vediamo oggi anche della magistratura come il caso del Csm è lampante, alcune cose avvengono anche perché certi ambienti a volte vengono contaminati».

Lo stesso Fava, poi, non si lascia sfuggire una stilettata nei confronti del magistrato Nino Di Matteo, pur senza nominarlo. «Nelle nostre audizioni in commissione abbiamo invitato tanti giudici di quel periodo – osserva il deputato all’Ars – Alcuni sono venuti, altri non hanno ritenuto neanche rispondere al nostro invito. E altri ancora hanno ritenuto doveroso rilasciare luminose interviste in tv su quello che sanno, ma hanno ritenuto meno importante condividere queste informazioni con la commissione regionale antimafia». Mentre la scrittrice e sociologa Alessandra Dino parte dal mantra diffuso dal sindaco Leoluca Orlando. «Palermo è cambiata? Certamente. Ma in altri casi le diseguaglianze economiche sono aumentate. Palermo è fatta anche di quotidianità, di respiro. E quello che appare è che viviamo una normalizzazione al ribasso del malaffare. Ci sono dei momenti, come quello attuale, in cui la mafia non ha la necessità di sparare. Viene da chiedersi, poi, se oggi sarebbe possibile la capacità aggregativa dell’antimafia di 25 anni fa». Infine una domanda, rimasta insoluta: «Con quali strumenti di mobilitazione dal basso, cioè, si può intervenire per debellare fenomeni corruttivi come quelli attuali?».

Andrea Turco

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