Dalle discoteche agli ambulanti, gli affari mafiosi all’Arenella Tra vittime-fiancheggiatrici: «Prendevano soldi da chiunque»

«Io problemi non ne ho per campare, non ne ho avuti mai. Non è che manca il mangiare o altro…È perché voglio fare tante cose grosse…Io vorrei fare tante cose, ma non le posso fare perché non ho la possibilità di agguantare tutto, capito?». Ufficialmente disoccupato e nullatenente, sembra che Gaetano Scotto se la sia passata sempre bene, per sua stessa ammissione. L’uomo, arrestato ieri con l’accusa di essere a capo della famiglia mafiosa dell’Arenella, parlava così al telefono con una delle sue sorelle il 28 giugno 2016, sei mesi dopo la sua scarcerazione da Rebibbia. E in effetti, i numerosi gioielli, gli orologi di valore e il denaro contante ritrovati a sua disposizione lascerebbero intendere che qualche giro, nella sua affezionata borgata marinara, in effetti potesse averlo. 

Molto sarebbe provenuto, secondo quanto emerso dalle indagini, soprattutto dalla gestione occulta di alcune remunerative attività commerciali. Come, per esempio, il White Club, noto locale costiero all’interno del rimessaggio Marina Arenella, molto amato d’estate anche dalla Palermo bene. Formalmente intestato a quella «testa di legno» del nipote, il recalcitrante Antonino Rossi (anche lui coinvolto nel blitz di ieri, ndr), il locale sarebbe invece riconducibile proprio a Gaetano Scotto. Che, di recente, è anche finito indagato per il duplice omicidio dell’agente di polizia Nino Agostino e di sua moglie Ida Castelluccio, uccisi il 5 agosto ’89 a Villagrazia di Carini. È seduti ai bianchi tavolini di quel bar che i due, zio e nipote, la notte dell’1 settembre 2016 si raccontano dell’estorsione a una nota discoteca della zona: «Sono andati da quello perché sono pieni di soldi, prendiamoci 20mila euro da qua», dice Rossi a Scotto, che in quel periodo era ancora in carcere e lamenta il fatto che il fratello, per quel gesto, si sarebbe affidato a persone appartenenti ad altre famiglie

Intanto, tornato nel quartiere d’origine, per gli inquirenti non ci avrebbe messo troppo tempo a riprendere la posizione e gli affari di un tempo. Pare, infatti, che come prima cosa avrebbe tentato di rientrare in possesso dei suoi beni, quelli nel frattempo affidati ad altri o intestati a persone “pulite”, di fiducia. Come un’unità immobiliare formalmente intestata a un’amica del boss, che lui ironicamente chiama l’avvocato. Un’amica che si sarebbe dovuta occupare per conto di Scotto di intestare fittiziamente quegli immobili al nipote del boss o ad altri fiduciari, basta che non figurasse proprio lui, che ufficialmente non possedeva nulla e non voleva rischiare, in futuro, un sequestro da parte delle autorità. «Io sono a parte, lo faccio giostrare a loro, hai capito? Perché non è che mi posso mettere nel mezzo, non esiste», diceva intercettato nel 2017 all’amica con cui stava architettando termini e modalità di quella cessione. Ripreso possesso dei suoi beni, poi è la volta del controllo del territorio. Ma non sembra fare troppa fatica, visto il rispetto raccolto all’interno della borgata, sulla quale avrebbe imposto, stando alle indagini, il suo potere decisionale tanto sulle attività economiche lecite quanto su quelle illecite.

«Tutte le questioni, anche le più banali, venivano sottoposte al benestare del boss – scrivono gli inquirenti -. Persino le autorizzazioni degli ambulanti per esercitare nella borgata marinara». A chi sgarrava, come il venditore ambulante di panini che si era piazzato in zona senza rivolgersi a nessuno (16.6.2016), bastava l’intervento, anche blando, di Gaetano Scotto, che intimava al malcapitato di lasciare l’Arenella e questo, puntualmente, pochi giorni dopo non si faceva più vedere. Bastava un semplice diktat del boss per rispondere alla richiesta della sua borgata di non far più lavorare un soggetto indesiderato. Una soggezione tale degli operatori economici della zona perpetrata per mezzo delle care vecchie estorsioni, con cui sarebbe riuscito a controllare il territorio senza alcun bisogno di dispiegare forza alcuna. Ma anche garantendo, in cambio, protezione. Tanto che, per alcuni casi ed episodi precisi, gli inquirenti parlano di «vittime che sono allo stesso tempo fiancheggiatori del potere mafioso». Persone «totalmente assoggettate al potere degli Scotto», tanto da soddisfare qualsiasi loro richiesta. Un sostegno generoso, quello ai componenti della famiglia mafiosa della borgata, che «prendevano soldi da chiunque», come dice lo stesso Scotto intercettato. Emerge, dall’indagine, un assoggettamento generale, di fatti.

Tale che alcune «attività commerciali avevano fatto recapitare a Scotto, subito dopo la sua scarcerazione, delle somme di denaro senza che questi avesse fatto una richiesta esplicita, proprio in virtù dell’assenza di qualsivoglia esposizione da parte di Gaetano Scotto che, nella circostanza, si limitava a “ricevere i frutti” – per citare le carte dell’indagine – avvalendosi dei suoi accoliti incaricati della riscossione». Un sostegno ricompensato però dall’amicizia del boss, dal quale qualcuno pare ricevesse anche qualche confidenza. Tutti, in ogni caso, dovevano pagare, nessuno poteva tirarsi indietro. A maggior ragione se le attività adocchiate dalla famiglia facevano affari d’oro, come quella leader nel settore della ristorazione finita proprio nella loro morsa. Qualora l’imprenditore non si fosse «messo in regola», Scotto prevedeva «brutti discorsi»: «Io ve lo sto dicendo, vi consumate tutti, attummulia uno, attummuliate tutti», avrebbe detto Scotto in risposta alle rimostranze di uno dei soci dell’attività. E sembrano essere state poche, in effetti, le attività che gli avrebbero voltato le spalle. «Là comandavo io, il padrone ero io», si vanta in un’altra intercettazione, raccontando dell’influenza esercitata sull’ennesima attività, uno stabilimento balneare della zona, dove un tempo aveva anche lavorato, entrando nelle grazie del titolare che gli avrebbe fatto spesso gestire la struttura a suo piacimento.

Silvia Buffa

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