Dalla fuga dalla Nigeria alla schiavitù di Palermo «Spezzale la gambe oppure rompile la mandibola»

Via Lincoln, via Cavour, piazza XIII Vittime, via Crispi, viale Diana e viale Ercole. È tra queste vie che è possibile trovare le giovanissime nigeriane costrette a prostituirsi, una delle più piccole ha solo 21 anni. Arrivano in Italia con la promessa di trovare subito un lavoro, col quale potranno in poco tempo saldare l’iniziale debito contratto di 30mila euro per poter partire verso un nuovo inizio. A tenere in mano la loro vita è la maman, una donna di 35 anni, Elizabeth Terry alias Lizzy, che le recluta nelle zone soprattutto della stazione centrale. Finita in manette, insieme ad altri tre uomini, con l’operazione di ieri. A lavorare per lei, infatti, ci sono molti sodali, che hanno il compito di individuare e ingaggiare le ragazze, assoggettandole poi attraverso minacce e violenti riti voodoo, mentre il loro nome e il giorno della loro partenza viene registrato nel cosiddetto libro. Una sorta di registro nelle disponibilità dell’organizzazione criminale.

Costrette a giurare in un santuario, prima di partire, viene almeno promesso loro che avranno la possibilità di mandare cento euro al mese alle proprie famiglie rimaste lì. Salvo inconvenienti. «Il mese scorso hai portato in tutto 260 e qualcosa – dice la maman a una ragazza -, e dovrei darti cento euro da mandare in Nigeria? Una ragazza che paga ogni giorno, per trenta giorni, il trentunesimo giorno devi far mandare soldi…», ribadisce, alludendo che avrebbe dovuto produrre di più. «Pioveva» tenta di giustificarsi lei, «devo mandare i soldi per la mia bambina, prende ancora cibo per neonati e usa i Pampers». Si inginocchia, insiste, supplica. Alla fine la convince. «Ma così come ha bisogno lei, pure io ho bisogno del mio a modo mio», si lamenta però Lizzy.

«Se dovesse succedermi qualcosa, non state fermi – dice un’altra delle vittime, al telefono con la madre -, bruciate la casa che Lizzy sta costruendo in Nigeria». Questa ragazza c’ha messo tre settimane per uscire viva dal deserto, nel viaggio dalla Nigeria alla Libia, senza mangiare per giorni interi, vedendo inerme uomini morire e donne ripetutamente stuprate dagli arabi. «Un viaggio tra la vita e la morte», racconta, intercettata. Poi la traversata su un gommone, il recupero e il salvataggio. Quando arriva in Italia ha già sulle spalle un enorme debito da saldare. Uno dei suoi primi appuntamenti è in via Maqueda, non lontano dal Comune. A chiedere di lei sono in due, che subito cercano di contrattare. «Cinquanta» dice subito lei. «Venti» replica il cliente. Alla fine si accorderanno, forse, per 40 euro.

Ma la strada per la libertà è lunga. Lizzy potrebbe essere disposta a lasciarla andare una volta garantiti 15mila euro, a fronte dei 25 inizialmente imposti, ci tiene che lei possa guadagnare qualcosa anche per se stessa. Gentilezze che la maman non riserva però sempre a tutte, specie a quelle che tentano di ribellarsi all’organizzazione criminale, che puntualmente vengono picchiate dal fratello di Lizzy, suo fedele sodale, anche lui finito in manette. «Sarà picchiata per bene oggi – dice l’uomo, parlando con la sorella -, la descriverò agli amici di Palermo così le daranno botte di nuovo. Non crederà nemmeno a quello che le farò», afferma, con tono sprezzante. Fare il capo, però, non sempre è facile. Lizzy, intercettata, addirittura si lamenta spesso del suo ruolo. «Dicono che sfrutto le ragazze senza neppure garantire loro il minimo, qualcuno le incita a ribellarsi – si sfoga la maman -. Mio fratello glielo dice che hanno la possibilità di farsi molti soldi, col lavoro di prostituzione guadagna minimo 70 euro al giorno, mentre lui ne guadagna massimo 30 a settimana».

Per sua fortuna, a darle una mano per garantire il costante stato di assoggettazione psicologica e di vera e propria schiavitù delle ragazze ci sono non pochi sodali, oltre suo fratello. Alcuni, anche donne, operano dalla Nigeria, dove spesso tengono sotto scacco anche i familiari delle giovani donne cadute preda delle trame della maman Lizzy. A Palermo non ci sono però solo connazionali. C’è anche Giuseppe Marino, classe 1941, che ogni notte si sposta da un luogo all’altro per controllare, in un certo senso, la situazione. Ma intanto l’arma di persuasione migliore si rivela sempre quella della minaccia. «Lui le spezzerà le gambe – racconta, ancora intercettata, Lizzy al telefono -. Ovo (il soprannome di uno dei sodali al suo servizio) dice che deve fare picchiare una delle ragazze, dice di gonfiarle la mandibola, di romperle una parte del mento». Violenze su violenze. E minacce. Come quella di trasformare le ribelli in pazze disperate, qualora si fossero rifiutate di saldare il loro debito.

Silvia Buffa

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