Dai fondali di Levanzo i reperti della prima guerra punica «Sonar e robot americani per mappare 250 chilometri»

Riemerge dalle profondità del mar Mediterraneo, dopo 2.200 anni, un altro importante frammento del patrimonio storico e culturale siciliano. Il dodicesimo rostro in bronzo della battaglia delle Egadi, combattuta nel 241 a.C. da romani e cartaginesi, tra le isole di Levanzo e Marettimo, è stato recuperato grazie alla straordinaria cooperazione tra la Soprintendenza del Mare e la RPM Nautical Foundation statunitense. 

Questa micidiale arma da sfondamento, che veniva montata sulla prua delle navi antiche per affondare le imbarcazioni nemiche, presenta una novità assoluta rispetto ai precedenti. Un sistema di convergenze di parti lignee dove si notano le parti finali della chiglia, del dritto di prua, delle due cinte laterali e della trave di speronamento. «I cinque elementi di legno che convergono all’interno del rostro ci permetteranno di aggiungere un tassello importante alla storia della carpenteria navale connessa con le navi da guerra – spiega Sebastiano Tusa, Sovrintendente del Mare della regione siciliana -. Quando procederemo con il restauro, con le analisi ai raggi X o con la tomografia, e riusciremo a estrarre questa parte lignea avremo preziose informazioni sulla tecnologia navale adoperata per costruire le navi da guerra in quel periodo, che ancora oggi non conosciamo bene». 

Costituito da tre lame sovrapposte e da un elemento centrale verticale, il rostro agiva generalmente sul pelo dell’acqua per essere scagliato come un siluro sulle navi, che venivano colpite diagonalmente e non di punta. Una tecnica che permetteva alle ali laterali di squarciare le imbarcazioni nemiche, spezzare i remi e distruggere l’apparato veliero. «Quest’ultimo rostro in bronzo che abbiamo ritrovato si è conservato perfettamente – prosegue Tusa -. Presenta solo dei danneggiamenti dovuti alla battaglia, però la consistenza è perfetta. Ha, inoltre, una decorazione costituita da un elmo romano con tre piume in altorilievo sulla guaina superiore e un’iscrizione che menziona i questori che certificarono la buona manifattura del rostro. Al momento risulta leggibile solo una parte, ma attraverso il restauro scopriremo il resto». 

Rinvenuto a ottanta metri di profondità nei fondali a nord-ovest dell’isola di Levanzo, nello stesso punto in cui sono affondate le navi, questo sperone è il segno tangibile di un conflitto lungo, difficile e oneroso, per entrambe le parti, durato oltre un ventennio. All’alba del 10 marzo del 241 a.C., a circa due miglia e mezzo a nord di Levanzo, un convoglio di settecento navi, guidato dall’ammiraglio cartaginese Annone, tenta di raggiungere le guarnigioni di Amilcare che erano assediate sulla cima del monte Erice. Il console romano Lutazio Càtulo intuisce la rotta delle navi nemiche, si nasconde dietro l’alta mole di Capo Grosso di Levanzo e quando le vede sopraggiungere a vele spiegate dà ordine di tagliare le cime d’ormeggio e salpare in fretta in modo da colpirle al traverso. Una mossa astuta che scatena la confusione e lo sgomento tra le navi nemiche che vengono distrutte o catturate. È lo scontro navale decisivo che rappresenta la fine della Prima Guerra Punica. 

«Fu una di quelle battaglie epocali – spiega Tusa – perché ha cambiato le sorti del mondo allora conosciuto. Dopo il 10 marzo del 241 a.C. Roma inizia la grande ascesa trionfale di conquista dell’intero mediterraneo. Dopo quella data quasi tutta la Sicilia, tranne Siracusa, passa in mano romana, e dopo due anni toccherà alla Sardegna e alla Corsica. Il potere di Roma sul mare si rafforza e dopo la seconda e la terza guerra punica, Cartagine scomparirà definitivamente dalla scena politica e militare. Roma, con l’impero, avrà la strada pavimentata per diventare l’unica dominatrice del Mediterraneo». 

La fondamentale scoperta sottomarina è frutto di un sistema di ricerca di grande pregio, tra la Soprintendenza del Mare e la fondazione no profit americana, che costituisce un’eccellenza a livello mondiale. Partita nel 2004, oltre ai dodici rostri, nel corso degli anni ha restituito centinaia di arnesi tipici dell’epoca tra elmi, anfore e oggetti in ceramica, che facevano parte della dotazione di bordo. «La RPM statunitense ha messo a disposizione la nave e le attrezzature per portare avanti le ricerche – aggiunge Tusa -. Abbiamo mappato 250 chilometri di fondale e attraverso un sonar a scansione laterale abbiamo individuato i reperti e poi, tramite un robot, abbiamo effettuato lo scavo e il recupero. In questa occasione abbiamo identificato anche due elmi che recupereremo a settembre». 

A custodire questo prezioso reperto, divenuto testimone di uno dei momenti cruciali del nostro passato, sarà l’ex Stabilimento Florio a Favignana. Un maestoso complesso, che si estende per circa 32mila metri quadrati, che alla fine dell’Ottocento rappresentava il più grande stabilimento della lavorazione del tonno nel mediterraneo. Motore e simbolo dello sviluppo dell’isola, per diversi decenni, chiude i battenti negli anni Settanta del secolo scorso. Nel 2003, dopo anni di abbandono, l’ex tonnara viene restaurata per essere inaugurata sei anni dopo, presentandosi come un vero gioiello di archeologia industriale. La nuova costruzione ha, tra l’altro, diversi allestimenti espositivi, che comprendono anche un museo archeologico che accoglie i reperti trovati nelle isole Egadi, una saletta per la proiezione di una ricostruzione della battaglia e dei grandi pannelli fotografici che illustrano i momenti e le attività più significative delle attività della tonnara. 

«Anche in questa occasione coinvolgeremo le scuole – aggiunge Tusa – che in passato sono state invitate anche durante il periodo del restauro, per far conoscere i reperti. Naturalmente non mancheranno video, pubblicazioni e mostre che contribuiranno alla valorizzazione».

Salvo Caniglia

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