Da qualche parte a Venezia

I soldi e il successo non fanno la felicità: un concetto tanto vero quanto banale è alla base del film Somewhere di Sofia Coppola, vincitore del Leone d’oro al Festival del cinema di Venezia 2010.

La Coppola sa tradurlo in immagini e racconto senza essere affatto scontata, affidandosi ai silenzi e alle espressioni del volto dei suoi attori, e a una regia fatta di inquadrature ferme, lentissimi zoom e piani sequenza.

Una scelta coraggiosa che punta a trasmettere il vuoto esistenziale, la noia e la solitudine del protagonista, la star di Hollywood Johnny Marco, allo spettatore che, però, potrebbe non apprezzare e comprendere che stavolta la lentezza del film non ne costituisce un difetto, ma ha una funzione sostanziale e poetica.

Johnny, interpretato da un bravo Stephen Dorff, è un attore famoso che vive nel leggendario hotel Chateau Marmont di Los Angeles, residenza alternativa di molte stelle hollywoodiane. L’albergo è il luogo – non-luogo in realtà – in cui trascorre con inerzia la sua vuota esistenza: di volta in volta il suo appartamento si trasforma in night club, dove due biondine si esibiscono in una squallida lap dance, nel setting di feste a base di alcol e pasticche che altri organizzano, poi in uno spazio desolato in cui il protagonista vive in attesa che le cose accadano. Johnny non è neppure padrone del suo lavoro: esegue con apatia le indicazioni che riceve dalla sua agente.

Così è stridente il contrasto tra quello che appare essere la sua vita, tra il caos e lo sfarzo di feste, interviste e show televisivi e quello che è veramente: una vita fatta di isolamento e ripetitività, caratterizzata da rapporti superficiali e incontri sessuali occasionali, esagerati ma privi di emozioni. La sceneggiatura, firmata dalla stessa Coppola, mostra questa contraddizione senza far trasparire alcun giudizio morale.

Emblematica la scena in cui Johnny resta immobile con il viso intrappolato in un’amorfa maschera di gesso, in attesa che il gesso si secchi per fare il calco della sua faccia. Il silenzio e l’immobilità sono l’essenza di una vita basata sull’apparire in cui lui non ha identità ma è quello che gli altri pensano che sia. Lo spettatore lo vede sprofondare nei suoi vizi, mentre fan e conoscenti non fanno altro che ripetergli ipocritamente che lo trovano in ottima forma. Quel calco in gesso serve a trasformarlo in un vecchio: Johnny può guardarsi allo specchio e vedere tutto lo squallore del suo futuro.

La monotonia delle sue giornate viene interrotta dall’arrivo inaspettato di sua figlia Cloe, un’undicenne dinamica e piena di passioni, la sola che riesce a suscitare emozioni in Johnny e a scuoterlo dal suo torpore. Unico personaggio reale della sua storia, in contrasto con le tante comparse del film, come il cameo di Benicio Del Toro, le finte fidanzate tra cui l’italiana Laura Chiatti e i personaggi televisivi. La rappresentazione della finzione raggiunge il culmine durante la partecipazione del divo alla serata di consegna dei Telegatti, con Simona Ventura e Valeria Marini nelle vesti di loro stesse e madrine di tutto il trash della TV italiana.

Il film ha una struttura circolare in cui la fine richiama l’inizio ribaltandone il senso. I lunghi minuti iniziali mostrano l’attore correre con la sua Ferrari lungo un circuito in un muoversi senza meta e dove il silenzio è rotto solo dal rombo del motore dell’auto. Alla fine quel mezzo, simbolo dell’agiatezza e dell’importanza dell’apparire, viene abbandonato per andare non si dove, ma sicuramente da qualche parte.

Agata Pasqualino

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