Cultura come integrazione

«L’integrazione è ancora difficile in Italia» , dice Rachid Berrati, corridore italo-marocchino della Nazionale italiana presente al primo incontro su “cultura ed editoria” di Descritto, festival dell’editoria indipendente. Quanto concretamente persone di culture diverse dalla nostra, appartenenti però alla medesima area geografica (quella mediterranea), riescono a “spuntarla” da migranti? «Sono cresciuto nella periferia, in un quartiere difficile», racconta Rachid, arrivato in Italia all’età di nove anni e stabilitosi a Palermo con la propria famiglia. «Volevo distinguermi, riscattarmi e l’ho fatto attraverso lo sport : ho iniziato con i Giochi della Gioventù come tanti ragazzini e sono arrivato fino alle Olimpiadi nel 2000», continua. Eppure, nel suo racconto, Rachid dice di essere stato fortunato perché «lo straniero viene spesso etichettato come pericoloso, come colui che non ha diritti ma solo doveri». Basti pensare alla questione della cosiddetta “seconda generazione” per cui i figli degli immigrati, legittimi cittadini italiani, per molti connazionali non lo sono affatto. Un problema di natura culturale più che legislativa per cui, secondo l’atleta, dovrebbero essere previsti maggiori interventi di politica sociale. Ecco perché «a Palermo ho aperto una scuola di atletica leggera per dare una chance a tutti i ragazzini in difficoltà, con la speranza che possano crescere in un sano ambiente multiculturale» conclude.
 
Migrare, partire, rappresenta sicuramente un cambiamento forte nella vita di ciascun uomo, ma chi si muove è destinato comunque a trarne profondo giovamento per la propria cultura. Capita anche nel mondo della letteratura che uno scrittore migrante decida di accogliere la lingua del paese che lo ospita e farla sua nella realizzazione di un’opera. Di letteratura della migrazione si occupa  Silvia De Marchi, coordinatrice di Edizioni Mangrovie, casa editrice indipendente con un comitato editoriale misto (italiani e stranieri).  «Così come  la mangrovia ha radici sottili, instabili, che crescono fuori dall’acqua, anche lo scrittore migrante prova a districarsi con un italiano che non ha appreso sui libri, ma che ha imparato dai dialoghi quotidiani, non senza difficoltà», la coordinatrice spiega il fenomeno dell’italofonia. 

Ma la crescita sociale e culturale di un Paese si misura anche attraverso una efficiente gestione delle realtà locali. A parlare di cultura come legalità interviene Umberto Di Maggio, sociologo del territorio e socio di LiberaTerra, cooperativa che si propone di aiutare soggetti disagiati attraverso l’utilizzo di beni confiscati alla mafia. «La nostra vuole essere un’antimafia del portafoglio perché l’etica dev’essere accompagnata dalla concretezza», dice Di Maggio. «Bisogna tenere conto delle reali esigenze degli operai che lavorano la terra per poter parlare di sviluppo del territorio. Se l’operaio è pagato secondo quanto previsto dal contratto nazionale del lavoro non avrà alcun interesse a lavorare nell’illegalità», aggiunge. «Lo sviluppo – conclude poi – è ciò che permette a due persone di partire dallo stesso punto e di avere le stesse possibilità, supportate da una buona rete di relazioni sociali».

A chiudere l’incontro il tema “la cultura come libertà”. «Un libro può essere libero. Osannato, denigrato, più o meno soggetto ad operazioni di marketing, il libro viaggia…», afferma Elvira Seminara, scrittrice e docente di Storia e tecnica del giornalismo presso la facoltà di Lettere e filosofia di Catania. Interrogandosi sul perché oggi gli editori non curino più i loro prodotti, lancia infine un appello: «Dovrebbero seguire una precisa linea editoriale e, invece di mandare al macero i libri che ritirano dal mercato, predendere esempio dalla casa editrice Einaudi e destinarli a scuole e biblioteche».

Roberta Attardo

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