Cronisti a ore? «Non siamo delle colf»

I media e il cinema, in particolare, danno una visione poetica di questo mestiere: da State of play a Il quarto potere, la professione giornalistica ha sempre suscitato curiosità e invidia perché avvincente e piena di adrenalina. Di certo l’adrenalina non si spreca nella realtà dei fatti. Fare informazione oggi in Italia è particolarmente difficile non solo perché si tende a colpevolizzare per ogni cosa i mass media, ma anche perché questo lavoro non dà garanzia per il futuro. Si è parlato di questo all’incontro “Giornalisti: assemblee dei lavoratori autonomi, free lance e co.co.co.”, organizzato dall’Assostampa Sicilia in collaborazione con la Federazione nazionale della stampa italiana venerdì 15 gennaio.

Le cifre sono deprimenti: i giornalisti (professionisti e pubblicisti) italiani sono circa 80 mila di cui l’80% non ha un posto di lavoro e di cui non si sa niente, perché non fanno parte del sindacato, e solo 16mila hanno un contratto a tempo indeterminato. Troppi i pubblicisti iscritti all’Ordine: «Chi non fa questo mestiere a tempo pieno non dovrebbe essere considerato giornalista» afferma Daniela Stigliano, vicesegretario nazionale e responsabile del Dipartimento lavoro autonomo della Fnsi. «Secondo i dati Inpgi2 (la previdenza per la Gestione separata) del 2008, più del 50% degli iscritti all’istituto di previdenza non ha un reddito, guadagna meno di 5mila euro l’anno o addirittura non ci sono contributi. Il 15% ha un reddito di circa 16mila euro l’anno, il 10% guadagna circa 7mila euro, il 7% ha un compenso di 34mila e al massimo un 2% ha un reddito superiore». I dati parlano chiaro: questo mestiere è quasi da morti di fame e non c’è nessuna garanzia di stabilità. La troppa concorrenza non aiuta il settore dato che in qualche misura l’abbondanza giustifica l’atteggiamento degli editori a ridurre i compensi e i giornalisti li accettano, mortificando questa professione. Se già un giornalista che lavora in una redazione non ha garanzia di tutela, il discorso sicuramente non cambia per i free lance e i co.co.co., che hanno cominciato a costituire le loro associazioni per poter avere maggiori garanzie.

Ci si lamenta dei contributi pensionistici che si devono versare all’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani. Il dirigente dell’Inpgi Augusto Moriga spiega che la previdenza cerca solamente di applicare la legge e i giornalisti devono versare quella somma anche se guadagnano solo 10 euro, perché lo prevede lo Stato. «Siamo riusciti ad ottenere un contributo minimo di circa 270 euro oltre al quale non possiamo scendere. È una piccola somma che, in cambio, dà un anno di contributi pensionistici». Inoltre l’Inpgi è riuscito  nell’impresa di far versare un 2% dei contributi all’azienda per la quale si lavora.

Non bisogna, però, percorrere la strada dei soldi perché mette a rischio l’esistenza stessa della professione. «Dev’esserci un maggiore rispetto delle regole e della professionalità a partire già da chi esercita questo mestiere». Per Luigi Rosinsvalle, vicesegretario nazionale e responsabile del Dipartimento sindacale della Fnsi, il giornalista non può essere un collaboratore pagato ad ore: «Non siamo delle colf. Essere giornalista non significa fare due domande con il microfono in mano». Quello dell’occupazione è un tema delicato visto il periodo di crisi economica, a maggior ragione in un settore in cui il mercato è saturo. A questo si aggiunge anche la totale sfiducia nelle istituzioni che sono nate per garantirli nel lavoro: «Oggi si assiste al proliferare del giornalismo fai-da-te. Vi è una vera e propria estinzione del ruolo professionale e l’allontanamento dagli organi ufficiali non aiuta», afferma il segretario regionale dell’Assostampa Sicilia Alberto Cicero.

A chi fa notare che il sindacato non protegge gli interessi dei suoi iscritti, Luigi Ronsivalle risponde che le cose sono cambiate. «Il sindacato non è solo un’etichetta. Se prima i giornalisti si prendevano il permesso sindacale per le riunioni, ora a quelle stesse riunioni trovi persone con le palle piene perché non sa come portare il pane in tavola». Continua il vicesegretario: «E’ finito il tempo di farsi ognuno gli affari suoi. Non è più tempo di fare dei distinguo tra chi ha un contratto a tempo indeterminato e chi no. Non è vita avere 58 anni e tornare a casa con 1300 euro al mese, averne 35 e non potersi pagare il mutuo. Quest’anno ne abbiamo mandati a casa 700 e se poi riusciamo a dare a questi anche il fazzoletto per piangere, possiamo dirci fortunati». L’Ordine dei giornalisti ha fatto la sua parte. «Non si può continuare ad iscrivere gente, solo perché ti aumentano il numero dei voti al Consiglio», conclude Ronsisvalle.

La Sicilia è al quarto posto per numero di pubblicisti iscritti all’albo. Si ha quasi una parità di numero con chi invece è professionista. «Per ciò che riguarda l’iscrizione all’albo, c’è un problema legislativo» spiega Giuseppe Lazzaro Danzuso, consigliere professionista dell’Ordine siciliano. «La norma ti permette di iscriverti presentando 60 articoli retribuiti in due anni. Un grosso problema dell’accesso indiscriminato alla categoria è che chi si presenta non conosce nemmeno le regole deontologiche perché non c’è nessun esame da dover affrontare. 4500 pubblicisti potrebbero fare tutto ciò che fa un professionista, ma non è così. Loro non possono svolgere la funzione di redattore».

Alberto Cicero non ha dubbi che «non c’è un commercio di tesserini, ma è la normativa che è antiquata. Dovremmo smetterla di distinguere tra pubblicisti e professionisti, perché ci sono pubblicisti come Josè Trovato* che a tutti gli effetti sono professionisti. Hanno cercato di far esplodere il sistema, ma non essendoci riusciti stanno cercando di farlo implodere. E ci stanno riuscendo con la nostra collaborazione, perché c’è qualcuno tra di noi che gli dà una mano». Insomma, verrebbe da esclamare “Dio, guardami dagli amici, che ai nemici ci penso io”.

 

*Josè Trovato è un giornalista pubblicista di Leonforte (Enna) che lavora per il Giornale di Sicilia. È stato minacciato dalla mafia e poco tempo fa è stato citato in giudizio, insieme alla collega Giulia Martorana de “La Sicilia”, per non aver rivelato la fonte in merito al ritrovamento di un cadavere a Piazza Armerina nel 2007.

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