Comiso, morto in un incidente stradale Mario Campailla Il 56enne era ritenuto il reggente del clan degli Stiddari

È morto in un incidente stradale, nel pomeriggio di oggi, lungo la strada provinciale Comiso – Santa Croce Camerina, Mario Campailla. Soprannominato U checcu e Saponetta, il 56enne è stato considerato dalla Direzione nazionale antimafia il reggente del clan degli Stiddari a Comiso

Uscito dal carcere da due mesi, si trovava agli arresti domiciliari. Campailla stava viaggiando sulla sua moto, una Kymco, in direzione Comiso. Stando a una prima ricostruzione dei fatti, l’uomo avrebbe perso il controllo del suo mezzo, finendo nella corsia opposta e andando a sbattere contro il guard rail. Campailla sarebbe morto sul colpo. Da poco si sono conclusi i rilievi effettuati dalla polizia provinciale. Il fascicolo è stato affidato al sostituto procuratore Francesco Riccio.

Il 56enne ritenuto boss della Stidda era stato arrestato nel luglio del 2015 con l’accusa di avere creato una rete estorsiva all’interno della quale erano finite diverse vittime, tra commercianti e cittadini. In quella occasione, gli inquirenti avevano ricostruito diversi episodi in cui, per imporre il proprio controllo sul territorio, Saponetta e altri due avrebbero fatto ricorso anche a minacce e violenze: dalle cene gratis in panineria al pizzo chiesto a una ditta di onoranze funebri, passando per la pretesa di recuperare debiti mai contratti per evitare di ritrovarsi casa e negozio distrutti da una pala meccanica.

A diventare oggetto delle minacce di Campailla, nell’estate di quello stesso anno, era stato anche il sindaco di Comiso Filippo Spataro. In quell’occasione, il boss aveva minacciato il primo cittadino, per la decisione di allestire un palco in una zona diversa da quella da lui desiderata: «Se muntati u palcu vi scannu a tutti a partiri ro sinnucu, tanto avanti ca arriva a Volanti va scannatu a tutti (Se montate il palco vi scanno a tutti, a partire dal sindaco. Tanto, prima che arrivi la Volante vi ho già uccisi tutti, ndr)», aveva urlato pubblicamente l’uomo già ritenuto un «soggetto dall’alta pericolosità sociale».

Marta Silvestre

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