CLASSIC: Velvet Underground&Nico – Velvet Underground

Velvet Underground

VELVET UNDERGROUND & NICO

(1967, Verve)

 

 

La storia di questo disco ha inizio al Cafè Bizzarre nel Village, New York: uno di quei bar annebbiati dal fumo e insozzati dal fango di birra e segatura. Quì, in una notte come altre del 1965, la band dei Velvet Underground (nome di un libretto sadomaso sotto-costo), formata dall’estroso Lewis Firbank Reed, al secolo Lou Reed, dal polistrumentista John Cale, dalla mascolina batterista Moureen Tucker e dal dinoccolato guitarist Sterling Morrison, si sta esibendo davanti a poche anime di ubriachi e insonni. Quasi alla fine del concerto Lou e John decidono poi, contrariamente alla volontà del padrone del Bizzarre, di suonare “The Black Angel’s Death Song”. Il brano è una violentissima folgorazione noise, la viola di Cale strilla, la strumentazione s’impasta in un incedere psicotico e il non-sense si allea per creare una bolgia indiavolata. Insultati, malmenati e letteralmente sbattuti fuori dal locale il gruppo ha, però, la fortuna di fare un terno al lotto certamente inaspettato: tra le poche decine di spettatori di quel concerto un omuncolo dai lisci capelli argento, occhiali scuri ed avvolto in un appariscente cappottone si innamora della loro musica disturbata e delle storie urbane, cattive e disumane uscite dalla penna di Lou. Quell’omuncolo è Andy Warhol e da quella notte molto cambiò nella storia del rock.

 

L’impatto che la Factory di Warhol, fucina artistica, concettuale, spregiudicata ebbe sul quartetto newyorkese fu micidiale. È nel 1967 che, sotto l’ala protettrice di Warhol e della sua surreale scuderia, viene registrato il materiale per il debutto discografico dei Velvet Underground: Velvet Underground & Nico. Eh già &Nico, perché una delle “postille” che Warhol rifilò a Lou e soci, oltre all’implorazione di

macchiare, insanguinare ed esagerare ancor di più i testi dei brani, fu

 

 

quella di imporre che la sua protetta Christa Paffgen, in arte Nico, cantasse in qualcuna delle canzoni della tracklist. Nico, splendida donna tedesca dalla voce severa e glaciale sin da subito provocherà le gelosie di Lou e degli altri, a causa di una presenza che risultava invadente e che alterava, in qualche modo, le dinamiche di gruppo. Ma alla fine ci sarà pure lei a registrare in sala d’incisione. A giochi fatti, registrati gli 11 brani, quello che mancava era una cover art che colpisse il pubblico come un pugno; per i Velvet Underground non fu difficile procurarsene una ad effetto, dato che il loro produttore e deus ex machina era uno dei più importanti artisti del mondo. Warhol, così, in pochi giorni e con la solita brillante genialità, partorì quella che diventerà la banana più importante della storia: Gialla a sfondo bianco era il simbolo pop, provocante e delirante di una società commerciale degli eccessi e dell’assurdo. Quando il disco debuttò tra gli scaffali dei negozi, il frutto in copertina poteva essere “sbucciato” tramite una linguetta posta sotto la scritta: “Peel Slowly and see” (sbuccia lentamente e guarda). Il contenuto? Beh, una polpa color rosa di evidente richiamo fallico. Ai piedi della stampa la firma di Andy che, in quel modo, siglava l’ennesimo contratto con la storia. Cos’è Velvet Underground& Nico? È una delle più spiazzanti, callose, pionieristiche opere della storia del rock: chi oggi si mettesse per la prima volta all’ascolto di questo lavoro rimarrebbe, infatti, sorpreso dalla modernità, dal carisma e dalla trasgressione di un disco che prende a spallate i limiti di tempo, che non si riconosce con nessun filone e genere e che, proprio rispetto a quel 1967 risulta un’incredibile prova d’avanguardia del rock fatta di rumore, dissonanza ed espressione. I testi di Lou Reed sono i più violenti, diretti e “realistici” che fino al momento si aveva avuto la possibilità di ascoltare. La penna di Lou ci spiattella addosso le vite disperate dei sobborghi urbani, dei ghetti. Dove spacciatori, puttane, omosessuali, scontri razziali sono i tasselli del puzzle sociale di una città multietnica come New York. Ma, come efficacemente suggerisce l’accostamento ‘velvet underground’ (bassofondo vellutato, o giù di lì), alla crudeltà, alla violenza e alla merda urbana, Lou scrive anche dell’amore, della bellezza, dello stupore che ogni tanto riescono a sbucare fuori anche dai cementi più crudi.

 

Il disco è aperto da “Sunday Morning”. La canzone, composta da John Cale e Lou Reed alle 6 del mattino dopo un’intera notte passata a vagabondare per la città, è accarezzata da uno xilofono trasognante a carillon e da un’atmosfera fumosa. La voce di Lou è irriconoscibile dietro chissà quale effetto del microfono e il brano è un vero e proprio bluff concettuale e musicale. La cadenza leggera, leggerissima e la luce della “Domenica Mattina” nascondono, al suo interno, un pessimismo ed un’amarezza incontenibile, ma anche le ombre, il sangue e lo strazio del seguito del disco..

 

Albeggia presto /domenica mattina / sono solo gli anni sprecati che incalzano

 

Lou Reed sussurra mentre cori celestiali, un basso caldo, e la viola di Cale ricamano un agrodolce sogno mozzato. Il bluff succitato si consuma in maniera definitiva con la partenza del ritmo spigoloso della traccia numero 2 :“I’m waiting for the man”. Il suo pianoforte martellante, sporco e affrettato ci parla di storie di droga, di spaccio, di crisi di astinenza e del classico rituale del “rifornimento settimanale”:

 

Sto aspettando il mio uomo
Ventisei dollari in mano
all’altezza di Lexington 1-2-5
mi sento malato e sporco
più morto che vivo
aspetto il mio uomo

 

“I’m Waiting for the man” apre la trilogia della droga completata da “Run Run Run” e da “Heroin”. La prima è un blues lurido, frettoloso e malato. La chitarra che improvvisamente irrompe sulla scena è tagliente, insensata, dissonante. “correre correre correre” è l’unica cosa da fare se si vuol salvare la pelle, se non si vuole essere beccati dagli sbirri e per evitare di cadere in un sonno che si può rivelare fatale. La batteria ipnotica della Tucker e la voce di Lou (decisamente diversa di quella di Sunday Morning”) mettono addosso una fretta ed un senso di pericolo e affanno.

 

 

Harry Sbarbato, che spreco
non riusciva a trovarne
neanche un assaggio
prese allora il tram
fino alla Quarantasettesima
pensava che se fosse stato bravo,
avrebbe trovato il modo d’arrivare in cielo

 

 

“Heroin”, non c’è dubbio, è il capolavoro del disco. il tamburo bitonale che la commenta, rappresenta la campana a morto di una processione lenta, masochista e disgraziata. La chitarrina minimale è calpestata da un Lou Reed allucinato che lungo i 7 minuti della canzone, aumentando di velocità il suo canto in un climax straziante, ci racconta di come l’eroina entri in circolo nelle sue vene e di come diventi l’Eroina del suo mondo, “la sua vita, sua moglie”.

 

Perché quando la botta comincia ad arrivare
allora non mi importa proprio più nulla

Perché quando l’eroina è nel mio sangue
e il sangue è nella mia testa
ringrazio Dio, sto meglio che se fossi morto!
ringrazio il tuo Dio che non sono cosciente
ringrazio Dio che non me ne frega più niente
e ammetto che non so proprio nulla

 

dopo di che, tutto è dimenticato, tutto impazza; poi la droga comincia a dilatare le cose, poi la musica si fa rumore, crudeltà acustica, isterismo, distorsioni spaventose, cacofonia. La violenza espressiva di un brano come “Heroin” riesce ad emozionare in maniera diversa ad ogni ascolto. E’ un brano da esplorare, masticare e poi da leggere tutto d’un

fiato.
I brani cantati dalla bella Nico sono quelli del “velluto” e dell’amore che Lou descrive ina maniera forte, complessa, quasi filosofica. “I’ll Be Yuour Mirror” è un dichiarazione importante, “There she Goes Again” e “Femme Fatale” invece sono il cuore straziato dall’indifferenza di una donna glaciale, vampiro. La voce della singer tedesca e l’asprezza dei commenti musicali sono l’ennesimo richiamo a quell’accostamento tra la guerra urbana e la dolcezza, tra il cemento ed un’anima che lotta per venirne fuori.

È così fortissimo l’impatto tra gli ultimi istanti della dolcissima “I’ll be tour mirror” e il binomio che chiude il disco: “The black angel death’s song” e “European Son”.

La canzone dell’angelo morto, dedicata al poeta della Middle Generation Delmore Schwartz, fu il brano grazie al quale Warhol s’innamorò dei Velvet quel giorno al Bizzarre. Come già detto, la viola di Cale è isterica e lamentosa. Ci sono poche parole per descrivere un brano di tal fattura. Dentro c’è il delirio, c’è la follia. È una storia di morte e violenza. E’ un viaggio iniziatico attraverso il sangue del mondo e la repressione culturale che ha “ucciso” il poeta omosessuale Schwartz. La chiusura del disco, affidata al blues rumoroso di “European Son”, è incandescente. Nasce con questo brano, il concetto di noise. Più di 7 minuti di improvvisazione impazzita. Chitarre stonate, batteria epilettica, distorsioni, rumori di vetri rotti, basso tenebroso, ossessione e rumore.

 

Tutto quello che verrà in seguito a Velvet Undrground& Nico attingerà ammirato da questo disco; e la sentenza di noi posteri al quesito di allora è che il suo carattere seminale e avanguardistico lo inserisce, a pieno diritto, tra le pietre miliari della storia del rock.

Riccardo Marra

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