C’era una volta un film

Il regista inglese Tom Hooper ha trasformato la storia di Giorgio VI, re d’Inghilterra negli anni della Germania di Hitler e della II Guerra Mondiale, padre dell’attuale regina Elisabetta, in un’opera da Oscar. Il suo film Il discorso del re ha ricevuto 12 candidature e vinto quattro statuette: miglior film, miglior regia, miglior sceneggiatura e migliore attore protagonista. Ad interpretare Albert Windsor, principe di Galles e futuro re, è infatti uno straordinario Colin Firth, che riesce mirabilmente a dare corpo e voce al personaggio e soprattutto ai suoi silenzi.

Perché Albert, soprannominato Bertie, soffre di una grave forma di balbuzie e quelli sono gli anni della radio, che spinge anche i Reali a sottomettersi alla comunicazione di massa e fa diventare la politica uno show. Dietro a quel difetto, che da sempre lo rende vittima di derisioni da parte del fratello Edoardo e del padre re Giorgio V, Bertie nasconde la sua difficoltà a ricoprire il ruolo di leader; ma nonostante le paure dovrà imparare a fare i conti con la modernità e accettare ciò che il destino ha in serbo per lui.

Hooper segue da vicino il suo dramma personale senza calcare mai la mano; così il film riesce a commuovere senza diventare mai retorico. Lo spettatore segue le vicende di Bertie mentre affronta la sua crisi, che è privata e storica insieme, ma il regista non mostra mai il protagonista come un uomo da compatire o da santificare. Bertie è a volte vittima dell’ira, spesso snob e arrogante, e inizialmente anche arrendevole.

Figlio di un sovrano duro e anaffettivo, è però anche padre affettuoso di Elisabeth e Margareth ed è un marito complice e tenero. Il detto “dietro un grande uomo c’è sempre una grande donna” vale anche per lui che, contrariamente ai suoi predecessori, ha sposato una nobile di basso rango, Elizabeth Bowes-Lyon, per amore. Libertà di scelta ottenuta forse proprio grazie al quel balbettare, che per tutti, compresa la moglie, interpretata dalla brava Helena Bonham Carter, l’avrebbe dovuto tenere lontano dal trono.

Quando però il fratello Edoardo VIII decide di abdicare per sposare un’americana pluridivorziata, Bertie deve vincere la sua riluttanza e indossare la corona.

Con il suo stile accessibile e allo stesso tempo raffinato, il regista mostra il protagonista contrapponendolo al fratello: diversamente da quest’ultimo, Bertie è sempre rispettoso del suo ruolo e, nonostante i timori, dedito al dovere e al suo popolo. Ma il confronto più elegante e significativo Hooper lo realizza tra il re d’Inghilterra e il dittatore nazista. Mentre il primo lotta per riappropriarsi della sua voce e farsi conoscere e amare attraverso di essa dai suoi sudditi, Hitler appare osannato e sicuro di sé durante i suoi discorsi di propaganda. In un momento così difficile per l’Europa, Bertie si rende conto di quanto sia importante anche saper parlare: se cose sbagliate dette nel modo corretto conquistano le folle, lo faranno ancora di più le cose giuste dette nel modo giusto.

Nella battaglia con se stesso e le sue paure, quella che precede la vera guerra, è affiancato da Lionel Logue, un logopedista australiano, non allineato con il sistema ma valido come pochi nel suo campo.

Grazie a lui e al suo metodo poco convenzionale, Bertie può risalire ai traumi che hanno causato il suo problema e affrontare l’ansia da prestazione che lo assale davanti al microfono, quell’oggetto che rappresenta milioni di orecchie.

Lionel è un uomo del popolo. Parlando con lui, re Giorgio VI impara a parlare all’uomo comune, a tutti quelli che stanno “dietro” quel microfono. Lionel dimostra al sovrano come la capacità e la professionalità non siano per forza legate alle convenzioni e al titolo e come l’amicizia possa essere la cura di molti mali.

Accanto a Colin Firth c’è un grande Geoffrey Rush: il suo mancato Oscar come attore non protagonista sarebbe stato il quinto meritato del film. La loro ottima prova interpretativa sta sì nella gestione del corpo – Firth, per esempio, deve interpretare un re dall’atteggiamento un po’ goffo, gobbo e timido alle prese con esercizi di respirazione e dizione e con il suo ruolo di monarca – ma soprattutto della voce: quella di Firth con i balbettii e le esitazioni del re e quella di Rush che recita Shakespeare con l’accento australiano. L’opera di Hooper è da godere in originale anche se i doppiatori italiani sono bravi.

Il doppiaggio, però, nulla toglie ai momenti di delicata ironia della pellicola, che è elegante come i suoi personaggi.

Il discorso del re è un film drammatico che non ha bisogno di disturbare e inquietare lo spettatore per essere considerato grande cinema. È come i bei film di una volta, dallo stile classico, senza effetti speciali o artifici narrativi. È una storia lineare dove la spettacolarità sta nell’essenza vera della settima arte: nella bravura degli attori e nello stile della regia.

Agata Pasqualino

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