Caso Mered, la difesa punta su una testimonianza È di un eritreo comprato dal vero trafficante in Libia

«Abbiamo chiesto di depositare dei nuovi atti che sono alla Procura di Roma, i pm ovviamente si sono opposti», lo spiega Michele Calantropo, legale dell’uomo detenuto al Pagliarelli e accusato di essere Medhanie Yedhego Mered, uno dei più pericolosi boss della tratta di esseri umani, ma che dichiara invece di essere l’eritreo Medhanie Tesfamarian Berhe, vittima di un clamoroso scambio di persona. Tutto rinviato a gennaio quindi, il collegio dovrà decidere nel frattempo se ammettere le nuove prove raccolte dalla difesa.

Tra i documenti che dovranno essere esaminati c’è il verbale d’interrogatorio reso da un eritreo detenuto nel carcere di Rebibbia a Roma, che ha ricostruito dettagliatamente il viaggio affrontato per giungere in Italia. Viaggio che, secondo il racconto e da quanto verificato anche dagli inquirenti, si interrompe quasi subito. L’uomo viene infatti sequestrato da un gruppo di miliziani, che lo rinchiude insieme a una trentina di altri malcapitati all’interno di un rudimentale carcere a Grumbli, in Libia. Per sfuggire alle torture dei sequestratori, i familiari di ogni migrante devono sborsare un riscatto di 1.200 dollari, ma chi non ha alle spalle nessun parente disposto a farlo, è costretto a contattare un trafficante referente, per chiedergli di fare da garante: serviva, insomma, qualcuno disposto a pagare per liberarlo. Per passare, in realtà, da una prigionia a un’altra, divenendo sostanzialmente una merce nelle mani del boss di turno, che lo costringe a collaborare all’organizzazione criminale per pagarsi la tratta via mare.

Il trafficante che si prende in carico l’eritreo è proprio Medhanie, secondo la ricostruzione riportata: «Io sono stato fortunato che Jamal Musa e Medhanie hanno comprato la mia vita, di tanta gente non si è saputo più nulla», si legge nelle carte dell’interrogatorio avvenuto a Roma il 15 maggio dell’anno scorso. Gli inquirenti hanno mostrato al detenuto delle fotografie, in due di queste ha riconosciuto Jamal Musa, «l’uomo che venne a pagare la nostra scarcerazione a Grumbli, è lui che ci ha consegnato a Medhanie». Nella seconda immagine riconosce quest’ultimo, descrivendolo come «un re in Libia», uno molto rispettato e «forse l’unico che si può permettere di andare in giro con un crocifisso al collo. Aveva sempre al seguito due telefoni – si legge nel verbale – uno per lavoro e uno personale». Le foto riportate nel resoconto dell’interrogatorio mostrano in maniera evidente le differenze fra il boss riconosciuto dal detenuto eritreo come Medhanie e l’uomo attualmente rinchiuso al Pagliarelli di Palermo.

Silvia Buffa

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