«Oggi assistiamo all’ennesimo
naufragio del sistema di accoglienza in Italia». La frase di Alfonso Di Stefano della Rete antirazzista catanese accompagna l’uscita dei tre pullman dai cancelli del Cara di Mineo. Sono le 13.45 e gli ultimi ospiti di quello che, per anni e fino a pochi mesi fa, è stato il centro di accoglienza per richiedenti asilo più grande d’Europa vengono trasferiti altrove. La destinazione per una buona parte di queste circa 90 persone è il Cara di Isola Capo Rizzuto, in provincia di Crotone (Calabria). La stessa struttura che, nel maggio 2016, è stata coinvolta nell’operazione Jonny della Dda di Catanzaro perché, secondo l’accusa, i servizi di catering dell’ente che lo gestiva – la Misericordia – sarebbero stati in mano a persone vicine a cosche ‘ndranghetiste.
«Siamo qui oggi per monitorare questo ultimo trasferimento – spiega a
MeridioNews Silvia Di Meo dell’associazione Bordeline Sicilia – Tra queste persone ci sono anche molti casi di soggetti vulnerabili psichici e fisici che avrebbero bisogno di strutture capaci di accoglierli con assistenza specifica per i loro bisogni». Un ragazzo ivoriano, prima di salire sul bus, esce a salutare i volontari che gli sono stati accanto negli anni che ha trascorso al centro. Arriva tenendo in mano un libro di Alessandro Baricco. Parla bene l’italiano e ha appena ottenuto il diploma di terza media andando a scuola a Mineo anche a piedi nell’ultimo periodo, visti i tagli che hanno coinvolto anche il servizio di trasporto. Destinazione Calabria anche per una giovane mamma nigeriana insieme al suo bambino di un anno.
Dopo l’
annuncio del ministro dell’Interno Matteo Salvini della scorsa estate, oggi si è compiuto l’ultimo passo degli allontanamenti iniziati a dicembre che però, nei fatti, non coincide con lo svuotamento della struttura dell’ex Residence degli aranci in vista della chiusura definitiva prevista per il 14 luglio. «Quello che ci preoccupa di più – aggiungono gli attivisti che oggi hanno presidiato i cancelli – sono le persone non registrate che vivono al Cara ufficiosamente perché, dopo essere state allontanate nei mesi scorsi e portate in altri centri con condizioni peggiori, hanno deciso di tornare». Senza badge, senza documenti, i loro nomi non sono nelle liste per i bus organizzati. Non c’è un numero preciso, ma questi «invisibili» sono circa un centinaio.
A incontrare alcuni di quelli rimasti dentro il villaggio di palazzine, realizzato dal gruppo
Pizzarotti spa, è una delegazione di Medici per i diritti umani (Medu) che, da oltre quattro anni, svolgono servizio di supporto psicologico e psichiatrico ai migranti. Insieme a loro ci sono anche le suore carmelitane scalze di Caltagirone. Non tutti scelgono di restare, alcuni degli invisibili si allontanano autonomamente. Durante la mattinata, alcuni escono dai cancelli trasportando le valigie su vecchie biciclette. Tre ragazzi utilizzano carrelli della spesa per trasportare le loro cose che lasciano in mezzo alla strada, coperte da una trapunta rosa, per fare avanti e indietro dalle loro case. Lì hanno appuntamento con un taxi etnico, cioè abusivo, da cui si faranno accompagnare «intanto a Catania», spiegano in inglese – anche se tra loro parlano in francese – «poi non sappiamo ancora dove andare». Solo uno di loro ha le idee più chiare: «Io vorrei raggiungere Palermo, dove ci sono mia moglie e mio figlio», dice prima di chiedere ai volontari se l’autobus da Catania a Palermo sia a pagamento. Ai piedi ha una sola ciabatta.
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