«Quando un giovane si toglie la vita è una tragedia per tutti, per noi è ancora più grande perché siamo qui per dare a chi arriva la speranza di un nuovo inizio». Così Sebastiano Maccarrone, direttore del centro di accoglienza per richiedenti asilo di Mineo, commenta a freddo la tragedia avvenuta sabato nella struttura, quando un ventenne eritreo è stato ritrovato impiccato con una tenda nel suo alloggio. A poche ore dal fatto il direttore si diceva sconvolto, tanto più perché «il ragazzo non risulta essere tra quelli che hanno dimostrato il bisogno di essere seguiti da uno psicologo». E, a due giorni di distanza, gli interrogativi sulla morte del giovane restano ancora aperti. Mentre commenti arrivano dalla politica, con un comunicato di Sel Catania, e dalla società civile, con una nota dell’associazione Arci che da anni si occupa di immigrazione in città.
«Noi monitoriamo tutti i soggetti deboli la cui fragilità psicologica può comportare un rischio. E lui non era tra questi – ribadisce Maccarrone – Tra l’altro gli eritrei non hanno difficoltà ad ottenere lo status di rifugiato, si tratta solo di aspettare». Il ragazzo era arrivato al Cara di Mineo a maggio. Sette mesi di attesa, fino alla scelta di togliersi la vita, nella media delle lunghe permanenze nel centro che arrivano anche a oltre un anno. Attesa che si unisce all’isolamento della struttura, distante dai centri abitati, tra le criticità spesso denunciate dalla rete antirazzista catanese e da altre associazioni.
Ma, a due giorni dalla tragedia, il direttore respinge al mittente le accuse: «Al Cara di Mineo ci sforziamo di creare le condizioni per una vita serena e le premesse per un inserimento nel territorio. Per questo motivo moltiplichiamo le iniziative che vedono gli ospiti interagire con la comunità, proprio per evitare quella ghettizzazione che da più parti viene additata come caratteristica strutturale dei centri di accoglienza e che noi siamo riusciti ad evitare – spiega – Questa tragedia ci impone di continuare con maggiore convinzione su questa strada ed aumentare i nostri sforzi in direzione di una accoglienza che sia scambio continuo tra le culture presenti al centro e la nostra». Iniziative come la società calcistica nata all’interno del Cara e presente nel campionato Fgic di Terza categoria, che ieri ha giocato a Caltagirone a porte chiuse e con il lutto al braccio.
Tante idee, ma che non bastano, secondo l’Arci etnea che definisce in una nota il suicidio del ragazzo una «morte significativa, perché rappresentativa della morte della speranza». Non è facile, continua l’associazione, comprendere le ragioni e le emozioni di una persona in fuga dal proprio Paese, «soprattutto quando la sua vita è contenuta e confinata da leggi, regolamenti e non-luoghi di trattenimento come il mega-Cara di Mineo che dovrebbero definire il percorso burocratico di accesso alla salvezza dei migranti». Fuori dalla polemica sull’opportunità dell’esistenza del Cara, quello che l’Arci nota all’indomani della tragedia è il «silenzio di una politica che tende ad interessarsi ai problemi dell’immigrazione e dell’accoglienza solo quando c’è possibilità di speculazione clientelare».
Unica voce a farsi sentire è quella di Sel che ricorda come già in passato lo stesso partito abbia presentato diverse interrogazioni parlamentari per denunciare le «contraddizioni ed inadeguatezze» di una «struttura che ad oggi ospita 4050 persone e che come facile immaginare non può garantire né basi di integrazione né di accoglienza». Una problematica da affrontare non più in emergenza, si legge nella nota a firma di Francesco Alparone, coordinatore provinciale Sel Catania, ma in modo strutturato «e che necessita di risposte immediate».
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