Calcio Catania: barattare la storia per il futuro? Due pareri a confronto sull’ipotesi del fallimento

Fallimento: «L’unico modo per arrivare a un passaggio di proprietà e progettare il ritorno alle categorie che la città merita». O, al contrario, «un’ipotesi da scongiurare. Anche se oggi sembra difficile scongiurarla». Sulla prospettiva che spaventa e fa discutere i tifosi del Catania – barattare sessant’anni di storia per chiudere col passato e sperare in un futuro diverso dal presente – Meridionews ascolta la voce di due giornalisti, entrambi esperti di calcio: Pippo Russo, collaboratore di diverse testate e autore di saggi sugli intrecci tra sport e finanza, e Roberto Quartarone, coautore dell’enciclopedia rossazzurra Tutto il Catania minuto per minuto.

Secondo Russo la soluzione estrema non sarebbe il male peggiore: il costo per l’uscita di scena del patron Antonino Pulvirenti – invocata dalla maggioranza della tifoseria – sarebbe proprio rinunciare al nome Calcio Catania 1946 e alla matricola 11700, almeno per una stagione. Pulvirenti è agli arresti domiciliari: indagato per truffa, frode sportiva, bancarotta fraudolenta (anche se gran parte dei fondi nei suoi conti correnti sono stati dissequestrati). La sua società stima perdite milionarie e deve pagare oltre 20 milioni di mutuo per il centro sportivo. E il bilancio non è ancora stato pubblicato. «Nelle condizioni attuali non vedo quale persona sana di mente possa voler prendere il Catania senza avere garanzie. Qualunque soggetto preferirebbe comprare il Catania fallito». Rischio evitabile solo a fronte di importanti disponibilità economiche, che dovrebbe essere o la vecchia o una nuova proprietà a garantire. 

La situazione è precipitata col passare del tempo, che ha fatto emergere le difficoltà economiche e sportive del club, oltre a quelle giudiziarie di Pulvirenti.
Il club risulta in vendita da luglio: «Se si fosse arrivati subito alla cessione, dopo l’inchiesta I treni del gol, forse non staremmo a parlare di fallimento – commenta Quartarone – Chiunque, di fronte a una società indebitata, ci pensa due volte prima di comprare». Oltre alla convenienza di chi vorrebbe – forse – comprare, a non fare decollare le trattative potrebbe essere anche l’interesse di chi ha messo in vendita: «Credo che il Catania sia la sola cosa che è rimasta in mano a Pulvirenti – osserva ancora Russo – E se lo terrà stretto finché potrà».

L’imprenditore belpassese si è dimesso dalla carica di presidente, ricoperta dal 2003, qualche giorno prima della sua confessione circa il tentativo di comprare cinque partite: «Ha rovinato tutto quel che di buono aveva fatto. Il suo comportamento potrebbe mettere la croce sopra sessant’anni di storia», dice Quartarone. E il successivo coinvolgimento nell’inchiesta Icaro della sua Finaria – società che in estate ha salvato il Catania versando i soldi per l’iscrizione – pare non abbia aumentato l’intenzione di vendere. «Attorno al club – aggiunge Russo – gravitano degli asset che fanno capo a Pulvirenti. E rendono difficile liberarsi del Catania». Una situazione che ricorda quella della Fiorentina di Mario Cecchi Gori: «Fatta di promiscuità tra cespiti di aziende, difficili da scorporare. A volte tieni un oggetto per evitare che ci guardino dentro».

Nel 2002 la Fiorentina dichiarò fallimento. Si sbarazzò di Cecchi Gori e ricominciò dal campionato di C2 col nome di
Florentia Viola. «Un passaggio traumatico. Ma l’ambiente era stanco di vivacchiare senza prospettive. E nell’animo dei tifosi – ricorda il giornalista – il senso di liberazione prevalse sul disappunto». La Fiorentina, riottenuto nome e matricola grazie al lodo Petrucci, fu promossa in serie A: «Uno o due anni di purgatorio sono un passaggio sofferto ma necessario per chiudere i conti con un pezzo della storia del Catania. Pensare di ripartire dal basso non deve preoccupare. Con questa proprietà si rischia di arrivarci comunque». Prospettiva che non cancella l’amarezza: «Catania si trova umiliata. La sua storia calcistica rischia di ripartire da livelli che la città non merita».

Un’esperienza simile a quella già vissuta dai tifosi rossazzurri nel 1993, quando la
Lega Calcio chiese la radiazione del Calcio Catania. Ma con una differenza sostanziale: il presidente, allora, era Angelo Massimino «che si fece carico dei debiti, lottò contro l’ingiustizia fatta dai poteri forti del calcio e alla fine vinse», ricorda Quartarone. Il Catania ripartì dall’Eccellenza «ma riuscì a salvare nome, matricola e storia». Massimino morì due anni dopo, sulla strada per Palermo: voleva incontrare il presidente della serie C, Mario Macalli, per sostenere il ripescaggio della squadra in C1: «Fu il solo a credere, sin dall’inizio, di poter fare valere le ragioni del Catania». Confermate nel 1998 da una sentenza della Cassazione.

Da allora i rossazzurri scalarono le categorie senza più retrocessioni, fino a tornare in serie A – dopo 21 anni di assenza – sotto la gestione Lo Monaco-Pulvirenti. La picchiata del Catania – che in tre anni è passato dall’ottavo posto in serie A fino a temere, in Lega Pro, per la sua stessa sopravvivenza – secondo Pippo Russo è frutto di una concatenazione di eventi che ha come punto di non ritorno l’estate della retrocessione in serie B: «Tutto l’ambiente,
con l’apporto pesante della stampa locale, era certo di stravincere il campionato. La disastrosa gestione Cosentino-Pulvirenti, dell’anno precedente, fu liquidata come un incidente di percorso anziché essere analizzata e divenire motivo per pressare la proprietà e ottenere piazza pulita subito. Fu un atteggiamento poco critico e poco responsabile».

Un atteggiamento diverso, tra l’altro, da quello fin troppo duro che la stessa stampa tenne a suo tempo nei confronti di Angelo Massimino. Il quale, ricorda Quartarone, «mise sempre gli interessi del Catania davanti ai propri e diede la vita per difendere la storia e l’identità del club»: Club Calcio Catania 1946, matricola 11700. Numeri, questi, che rischiano oggi di scomparire tra le cifre su cui indagano finanza e magistratura.

Marco Di Mauro

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