Ambrosoli, lo sdegno e il coraggio

«La speranza ha due bellissimi figli: lo sdegno per come sono le cose e il coraggio per cambiarle». C’è un’iscrizione di Sant’Agostino sulla targa che il Comune di Acireale ha donato ad Umberto Ambrosoli, durante la presentazione del libro “Qualunque cosa succeda”, nel salone delle terme, sabato 16 gennaio, in occasione della prima ‘giornata della coerenza civile’. In sala sono presenti tre generazioni. A trent’anni dall’omicidio dell’avvocato Giorgio Ambrosoli, c’è chi ricorda perfettamente dov’era e cosa stava facendo quella sera, l’11 luglio del 1979, quando, accesa la radio, ha sentito la notizia. Ma c’è anche chi era troppo piccolo, e chi non era ancora nato.

E’ il 1979, e sono anni in cui, in un’Italia teatro di violenza e lotte armate, anche fare il proprio dovere diventa un lusso che in pochi possono permettersi. L’avvocato milanese Giorgio Ambrosoli, però, non ha dubbi. Scelto come liquidatore della Banca Privata Finanziaria di Michele Sindona, accetta l’incarico. La sera prima della firma dell’atto di liquidazione viene ucciso, sotto casa, da un sicario di Sindona. Proprio all’imbrunire di quell’ultima giornata di lavoro che lo aveva visto, per cinque anni, isolato, imbattersi in un ginepraio di illegalità, fra bilanci che non quadravano e false compensazioni. Era consapevole di aver pestato i piedi ai potenti e ai malavitosi e, in una lettera di qualche anno prima alla moglie, scriveva: «È indubbio che, in ogni caso, pagherò a molto caro prezzo l’incarico: lo sapevo prima di accettarlo e quindi non mi lamento affatto perché per me è stata un’occasione unica di far qualcosa per il Paese».

Ed è su questa frase che il presidente dell’associazione forense, Orazio Consolo, apre l’incontro, ricordando come anche Sindona fosse un avvocato. «Umberto Ambrosoli, però, aveva fatto una scelta. Una scelta politica, per lo Stato e non per i partiti», afferma. Prosegue il magistrato Angelo Costanzo, sottolineando la doppia veste di Ambrosoli come legale dei risparmiatori e funzionario dello Stato: «La sua era quella che Bodei definiva “passione grigia”, indice di un liberalismo borghese che sembra razionale e controllato, ma che in realtà possiede tutte le sue passioni», aggiunge.

La parola passa all’autore del libro, terzo dei figli di Ambrosoli, che alla sua morte aveva solo sette anni. Si rivolge subito ai presenti, specie ai più giovani: trova normale che il nome del padre non evochi in loro nessun ricordo, ma non giustifica chi non ne ha trasmesso la memoria. «Sono molto arrabbiato. Lo sono prima di tutto con me stesso, ma anche con chi per anni non mi ha mai parlato di Fulvio Croce, ad esempio, avvocato assassinato nel ’76 dalle Brigate Rosse. E non ne conoscevo il nome, nonostante abbia frequentato scuola, università e pratichi da tempo l’attività forense». Anche alla vicenda Ambrosoli, denuncia il figlio, istituzioni e stampa non dettero, negli anni, il risalto che meritava. A lui oggi si intitolano strade e piazze ma, come ricorda l’autore, «ci vollero intellettuali come Stajano e Placido, affinché il dramma di mio padre entrasse a far parte della coscienza collettiva, attraverso il romanzo Un eroe borghese».

Umberto Ambrosoli una cosa vuole metterla in chiaro: non ha scritto un libro con un intento celebrativo, ma con la speranza che la sua storia possa essere un esempio. «In molti mi hanno detto che l’incarico di mio padre era stato affidato anche a loro ma, avvertito il pericolo, lo avevano rifiutato», racconta, denunciando quella che lui ritiene una «solidarietà opacizzata» dal compiacimento per la scelta del padre, ma non accompagnata dallo stesso coraggio. «E’ questa la differenza tra chi dà priorità alla propria vita, e chi mette al primo posto la collettività, come ha fatto mio padre», spiega.

Quello di Umberto Ambrosoli vuole essere anche un messaggio per i rassegnati, i cinici, per «chi non reagisce perché “questo è il sistema”. Invece no, il sistema non è questo, ma quello che noi vogliamo». Un concetto che l’autore vuol far passare attraverso il racconto delle vicende di suo padre, «una storia tra le tante, ma che deve insegnarci che è possibile essere se stessi, tenere la schiena dritta, indignarsi e sapere dire no».

Flavia Musumeci

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