Zen2, il lavoro delle donne in bene confiscato «Le loro borse parlano di etica e di riscatto»

«Io non sono una volontaria allo Zen, ho semplicemente portato nel quartiere quello che sapevo fare, mettendo a disposizione la mia esperienza». Lei è Maruzza Battaglia e lo Zen è stato solo il punto di partenza di una storia e di un progetto che con tenacia porta avanti da nove anni, in quello che un tempo fu, a pochi chilometri di distanza, uno dei possedimenti della famiglia mafiosa di San Lorenzo, i Caravello. «Sono entrata per la prima volta allo Zen nel 2008, prima di allora non avevo mai messo piede in quel quartiere», racconta. «Per la precisione mi riferisco allo Zen 2, quello più isolato e degradato – dice -. È stato un colpo allo stomaco, perché vivono in condizioni inumane». A portarla lì è la richiesta d’aiuto di una donna che gestisce un’associazione e che da lei vuole una consulenza per un corso di cucito. Perché, malgrado la professione di biologa, Maruzza si occupa per anni di sartoria e di moda, gestendo anche alcune boutique a Palermo. Quindi si arma di buoni propositi e si apre alla conoscenza di un mondo che fino a quel momento aveva ignorato.

«Mi sono indignata talmente tanto per quel degrado che ho iniziato a meditare su come potevo aiutare il quartiere e le sue donne soprattutto – prosegue -.  Ho convinto un’amica stilista a insegnare quello che sapevamo fare». Iniziano disegnando un prototipo di borsa che le allieve dovranno imparare a riprodurre. Maruzza però non si sente ancora un’imprenditrice che sta offrendo un lavoro, ma «sembravo più un’invasata in realtà – dice – lo Zen mi è proprio entrato nel sangue». Ed è qui che inizia la storia, quando con 200 euro compra la prima macchina da cucire che trasporta in giro per le case di queste donne. Ma non sono in tante a lasciarsi convincere. Molte iniziano il laboratorio e poco dopo si ritirano. «Ce n’è stata una che lavorava le stoffe di notte, mentre il marito e i figli dormivano». E di nascosto, perché il coniuge non voleva che lei si dedicasse a un’attività, per di più nell’ottica futura di svolgere un mestiere e quindi di emanciparsi, produce 40 borse, che Maruzza fotografa e sponsorizza nei circoli della Palermo bene.

Le attenzioni per quello che presto diventa il marchio Lab Zen2 aumentano rapidamente. Il progetto piace e fa parlare di sé. Ma c’è una difficoltà che è difficile da aggirare: «Trasmettere a queste donne la voglia di lavorare e di essere indipendenti, le abbiamo abituate all’assistenzialismo». Tuttavia l’ascesa è irrefrenabile e nel giro di poco l’associazione si trasforma in una Onlus. Nel 2009 Maruzza ottiene un finanziamento per un corso di formazione di sartoria. I locali sono quelli assegnati dallo Iacp di Palermo, nell’insula 3 dello Zen: «Una famiglia di senzatetto ha rotto le grate e si è stabilita dentro più e più volte – spiega -. Non li ho mai denunciati, perché io volevo poter tornare in quel quartiere». Inizia un faticoso tira e molla che la vede perdente. «Mi sono dovuta confrontare con una mentalità diversa e dalla legalità bordeline. Sono stata anche minacciata, ma ho provato comunque a immedesimarmi».

Alla fine cede e si rivolge alla chiesa della zona, che le mette a disposizione alcuni spazi. E il corso prende finalmente il via senza intoppi fino a marzo 2010. «Atmosfera bellissima: donne abituate a guardarsi in cagnesco che finalmente socializzavano fra loro – ricorda Maruzza -. E le borse hanno avuto subito un gran successo, perché erano la dimostrazione che dallo Zen può uscire un prodotto bello, di lusso». Il sogno però finisce presto. Quando nel 2012 il parroco decide che la chiesa non può più ospitare il laboratorio di sartoria. Il progetto si ritrova di nuovo senza un luogo di riferimento e resta in stand by fino all’agosto 2016 quando, dopo aver partecipato a un bando del Comune per l’assegnazione dei beni confiscati, il sindaco Leoluca Orlando consegna a Maruzza le chiavi di due locali in via Astorino, zona San Lorenzo. Locali chiusi da sedici anni e che riesce a rimettere in sesto grazie al sostegno degli abitanti del quartiere e alle donazioni raccolte a mezzo social. Di lì a pochi mesi è di nuovo tutto pronto per ricominciare: «Adesso sono aperta alle donne di ogni quartiere ed etnia, a chiunque voglia scoprire e innamorarsi di un mestiere – continua ­- Ecco perché non è volontariato, ma cultura del lavoro: questo progetto ha le potenzialità per diventare in futuro un polo occupazionale per tante persone. Un progetto di cui mi sono innamorata anni fa e di cui parlo ancora emozionandomi moltissimo».

Silvia Buffa

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