Zappalà: “Metto in scena la prepotente devozione dei catanesi’

Roberto Zappalà, quando è nata, di preciso, l’idea di una danza per Sant’Agata?
Mi piace questa espressione di una danza per la Santa, contiene una certa devozione che forse oggi si è perduta. L’idea è in me da molto tempo, più o meno da 10 anni, ma per il rispetto che nutro nei confronti della religione, avevo timore di parlare, per il rischio di risultare folkloristico. Dovevo essere preparato al 100%, per cui, in concreto, le mie ricerche sono durate 2 anni e la messa in scena 3 mesi.

E’ stata piu’ un’idea o un’esigenza?
Bè, il progetto è nato in concomitanza con quello del Re-Mapping Sicily e l’esigenza è stata quella di rinnovare, almeno esteticamente, il linguaggio poetico, arcaico, viscerale, contemporaneo e anche fastidiosamente ingombrante della sicilianità. La lettera dominante, ad esempio, è la A, A di Agata ma anche di serie A; ma c’è anche la P, di prepotenza, potenza, predominanza, perseveranza.

Quanto ha influito il suo rapporto personale con Agata sulla rappresentazione?
Io non sono devoto. Pochi lo sono davvero. Però sono molto rispettoso della religione, che si è persa negli affari, nel business. Ma sul palcoscenico sono libero, sono un artista.

Sant’ Agata non danza, piuttosto viene “danzata” dai ballerini, che non la lasciano un momento. E’ un riferimento alla processione o c’è un altro significato?
Ovviamente è un riferimento al fercolo,ma c’è anche il senso di proprietà dei devoti verso la Santa, anche se non è indirizzato a Sant’Agata in sè, ma ad ogni processione. I catanesi, comunque, pensano che Agata appartenga loro, non sanno che è patrona di moltissime altre città nel mondo. E’ un linguaggio contemporaneo, per le nuove generazioni.

Pensa che il popolo catanese possa capire ed apprezzare uno spettacolo così forte o che si possa sentire offeso, ‘profanato’?
I devoti profanati, può darsi, ma sto dando un’analisi profonda e la partecipazione degli spettatori ne è una conferma: circa 700-800 persone finora sono rimaste estasiate, impietrite. Io sono a favore della religione: è un punto di riferimento dell’anima. Ma questo è fanatismo, che di per sé non è una brutta cosa, ma se eccessivo, lo diventa.

E’ questo il tipo di rischio a cui si riferiva, quando ha deciso di rimandare il progetto? Lei tocca molti punti nevralgici dell’orgoglio catanese: la festività agatina, il Calcio-Catania, il legame tra mafia e S.Agata..
Parlavo di rischi drammaturgici, non su quanto poter dire. Proprio per avere la massima libertà, non ho richiesto soldi pubblici per questa messa in scena. Voglio far riflettere. Questo è un problema che si pone in relazione a tutte le feste pagane, in tutti i posti. “Semu tutti devoti tutti?” è uno slogan internazionale. Io, comunque, sono un artista, il mio compito è mettere poesia, perciò quella che va giudicata è la mia vocazione ad essere il poeta della scena.

“Se oggi la città è nostra, è nostra tutto l’anno”, declama un ballerino con un sottofondo musicale tratto dal film Gomorra. C’è del delirio di onnipotenza nei popoli del  Sud?
Quella è prepotenza del linguaggio… all’ennesima potenza. Il senso è quello che viene recitato proprio all’inizio dello spettacolo: l’uomo singolarmente è innocuo, il branco crea vicessitudini pericolose.

I ballerini, molti dei quali stranieri, hanno avvertito la pressione del tema religioso?
Si, certo, non era difficile da percepire. Ne abbiamo discusso per 3 giorni ma, comunque, sono artisti quindi freddi esecutori.

Vinicio Capossela ama e canta le feste sacro-profane. Intende diventare il Capossela della danza o fermarsi a S.Agata?
Sto rimappando la Sicilia ed è necessario riflettere per poter raccontare la vera sicilianità. Si tratta di letteratura nello spazio, ma la città non è ancora veramente pronta a possedere una compagnia come questa. La ospita, sì, ma manca ancora consapevolezza politica, sia di aggregazione che amministrativa.

 

Antonia Maria Arrabito

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