Visti da voi, Come un tuono di Cianfrance L’umanità è un fulmine: corre e si schianta

Stupisce fortemente che Come un tuono (titolo originale The Place Beyond the Pines) sia solo il terzo film di Derek Cianfrance, un regista abbastanza giovane che ha lottato e pazientato a lungo prima di riuscire a realizzare i suoi desideri: raccontare storie, creare film e, particolare non irrilevante, trovare qualcuno che li distribuisse. Vi chiederete: e quindi? La gavetta è normale per ogni regista o aspirante tale… Vero, ma è anche lecito, vedendo questo film e apprezzando l’enorme talento di Cianfrance, chiedersi quali altre meravigliose cose avrebbe potuto regalarci se non fosse rimasto fermo dal 1998 al 2010.

Ma così è (stato) e chissà che questa lunga pausa forzata non gli abbia fatto bene, rendendo il suo desiderio più intenso, il suo stile più maturo e le sue capacità pronte a mostrarsi al massimo: perché in effetti in Come un tuono non traspare solo il suo talento, tanto tecnico quanto narrativo, ma anche un’inaspettata maturità e sapienza, anch’esse di duplice matrice tecnico-narrativa.

Prima della struttura, della storia, delle scelte linguistiche e tematiche, mi sembra necessario partire dal titolo, ed è strano, poiché pur non essendo quello originale, bensì la versione italiana, in questo caso calza decisamente a pennello. La frase Come un tuono è infatti il vero leitmotiv, o meglio è il principio fondante e ordinatore di tutto: non c’è elemento nel film che, come un tuono, non vada dritto al punto, fulmineo e inaspettato quanto chiaro e ineluttabile. Ed è prima di tutto il film stesso, e questa forse è la più grande abilità narrativa del regista, a colpire lo spettatore potentemente, ma in modo semplice e diretto, catturando la sua attenzione e coinvolgendolo pienamente senza confonderlo e senza complicazioni, sì da non apparire mai lento né noioso pur avendo una durata non indifferente (quasi tre ore).

La struttura si potrebbe definire a matriosca poiché caratterizzata da tre blocchi o episodi che godono di vita quasi autonoma, seppur tutti attraversati da una linea narrante di fondo. Tre unità che si incastrano l’una dentro l’altra, ognuna prendendo le mosse dalla precedente (fatta eccezione per la prima). Tre storie che dopo pochi convenevoli iniziano una corsa inesorabile, con una tensione che, pur senza picchi, è continua, crescente e quasi angosciante, fino a schiantarsi al loro punto d’arrivo, che sta lì in agguato, neanche troppo nascosto allo spettatore. Tre storie che infine si ritrovano, si ricongiungono e trovano la pace in un pianto catartico finale, preludio di una fuga che scioglierà la tragedia tra l’ermetico e il romantico.

Tragedia non è un termine usato casualmente, né è fuori contesto: sono tragici i personaggi che, benché né storici né mitici, trasudano pathos e si disperano e soffrono, prigionieri di situazioni e avvenimenti in cui bene e male non sono mai nettamente distinti e separati. E’ pura tragedia tutto il film, e verrebbe quasi la voglia di scomodare un mostro sacro come Shakespeare, poiché ciò che viene messo qui in scena è l’umanità tutta, nella sua essenza ontologica e in quella storica, presa nella sua complessità, nel suo caos di sentimenti, passioni, violenza, sangue, cattiveria e cinismo, amore e buoni propositi. Nessuno alla fine è innocente, nessuno pienamente colpevole, resta il dramma assurdo dell’uomo e della società in cui egli è immerso, anch’essa ben rappresentata, con particolare attenzione a quella americana ma senza eccessive limitazioni contestuali.

Eppure, come già detto, l’abilità del regista (e della sua squadra) non si limita al campo dei contenuti; è infatti anche nel campo della forma che egli dà saggio del suo talento, e lo fa prima di tutto con un magistrale uso della macchina da presa, riuscendo a cogliere e trasmettere anche le sfumature più piccole, e dilettandosi con lunghi piani sequenza che amplificano la partecipazione emotiva dello spettatore e danno un sapore di vita vissuta a ciò che scorre davanti ai suoi occhi. Le inquadrature sono spesso ravvicinate, quasi a voler far sentire sul volto dello spettatore il respiro dei personaggi, bellissima è anche la fotografia che riesce spesso, coadiuvata dalle musiche, a stabilire un rapporto partecipativo tra le atmosfere delle storie e lo spazio in cui esse si svolgono.

Menzione particolare merita anche il cast: diversi sono i grandi attori presenti, nessuno o quasi delude e, simpatici o no al pubblico, sono Bradley Cooper e Ryan Gosling, ovviamente favoriti dai rispettivi ruoli, a emergere con due grandi interpretazioni. Cooper in particolare conferma quanto di buono aveva già fatto vedere ne Il lato positivo, continuando su una strada che, se non temporanea e se ben percorsa, lo potrebbe seriamente portare nell’Olimpo dei grandi attori.

In conclusione torniamo ai temi e alla storia. L’oggetto che si prende in esame e si porta in scena, la tematica principale nonché il protagonista assoluto di tutte le storie e di tutta la storia, è l’uomo, visto negli aspetti più profondamente veri e terribili di quel dramma che è la sua vita. Una vita assurda, senza senso e senza giustizia, dove ognuno ha qualcosa che altri desiderano e desidera ciò che altri hanno; dove nessuno può sottrarsi al richiamo della propria natura, rimanendo così una sola chance come ultima possibilità di senso ed estremo tentativo di farsi giustizia da sé: andare avanti come un fulmine, anche a costo di schiantarsi come un tuono.

Federico Salvo

Redazione

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