Aveva giurato che non avrebbe più messo piede in Iraq Giuliana Sgrena, dopo il suo sequestro nel 2005. Prigioniera per un mese a Baghdad per mano di un gruppo della Jihad islamica, Giuliana viene liberata a seguito di lunghe trattative conclusesi in circostanze drammatiche: il suo ferimento e la morte di Nicola Calipari (uno degli agenti dei servizi di sicurezza italiani). Quelle terre in cui realizzava i suoi reportage per il Manifesto, quotidiano con cui collabora dal 1988, non è più riuscita a dimenticarle. Oggi nel suo libro “Il ritorno” spiega di aver dovuto confrontarsi con il luoghi del trauma per motivi personali e professionali. Lo fa al Multisala Margherita di Acireale, in occasione della proiezione del film “20 sigarette” del regista Aureliano Amadei.
Giuliana, cosa la spinge ad essere testimone nelle zone di guerra? Il voler essere occhi e orecchie per chi non può essere lì?
«La mia non è una scelta di andare esclusivamente nelle zone di guerra. Mi sono sempre occupata di vari luoghi sparsi per il mondo, tra queste anche zone colpite dalla guerra e, in quel caso, cerco di dar voce a chi non ha voce. Quando si tratta di una guerra, cerco soprattutto di raccontare gli effetti che quella guerra ha sulla popolazione civile, la quotidianità che spesso non viene raccontata dagli altri giornali. C’è chi è molto più competente di me nel raccontare gli scenari di guerra, ma a me non interessano le grandi azioni militari. Se tu stai sul luogo è più interessante capire come vive la popolazione, come si vive in guerra».
Perché l’esigenza di tornare in Iraq?
«Avevo detto che non sarei più tornata perché era forte la rabbia per quello che era accaduto. I miei sequestratori credevano che io fossi una spia. Dopo aver fatto delle indagini si sono resi conto che ero solo una giornalista e quale fosse la mia storia. Mi hanno detto “sappiamo chi sei, ma useremo tutte le armi che abbiamo a disposizione, anche te”. Io non capivo. Per tutta la vita ero stata una pacifista e adesso mi trovavo ad essere un’arma. Sono tornata perché avevo bisogno di confrontarmi con i luoghi del trauma e perché quelle terre e le persone che ho incontrato non sono più riuscita a dimenticarle, sono diventate la mia seconda casa. Inoltre era per me un’esigenza professionale».
Perché un’esigenza professionale? Cosa può raccontare lei che un giornalista embedded non racconta?
«I giornalisti embedded sono dei giornalisti in uniforme, degli “arruolati”. Il loro contratto prevede la censura e scrivono quello che gli viene dettato dai militari. Il loro ruolo è stato regolato dal Dipartimento della Difesa statunitense nel febbraio 2003, poche settimane prima dell’inizio della seconda guerra in Iraq. La copertura mediatica delle operazioni di guerra forma la percezione pubblica della sicurezza nazionale».
Le viene in mente un esempio specifico?
«Fallujah, città a 50 km da Baghdad, era considerata il simbolo della resistenza e della rivolta contro la presenza delle truppe occidentali. Quindi prima delle elezioni del 2005, per gli americani questo simbolo doveva essere distrutto. Fallujah era già stata attaccata nell’aprile del 2004 e poi pesantemente nel novembre dello stesso anno. A seguito del secondo attacco, tutta la zona era stata isolata e nessuno poteva avvicinarsi, neanche gli iracheni, figuriamoci i giornalisti. Gli unici che potavano seguirla erano i giornalisti embedded che però vedevano soltanto quello che facevano le truppe che avanzavano, non potevano vedere quello che accadeva dall’altra parte. Ad un certo punto si sono viste delle nuvole bianche nel cielo. Gli americani dicevano che erano armi che venivano esplose per illuminare gli obiettivi da colpire. Quello che succedeva dall’altra parte, invece, sono andata a farmelo raccontare dai profughi. Mi hanno spiegato che gli effetti di quelle armi erano gli effetti del fosforo bianco: arma di distruzione di massa che gli americani usavano contro i civili, che distruggono tutte le parti del corpo che contengono liquidi e che lasciano solo cadaveri vestiti».
Ha trovato un Iraq diverso nel suo ultimo viaggio?
«Ho lasciato un paese distrutto e adesso ho trovato un paese che si sta riprendendo. Soprattutto le donne si stanno rialzando e iniziano a rivendicare i loro diritti».
Su molti degli striscioni che abbiamo visto sfilare nelle piazze italiane in occasione della contestazione al Ddl Gelmini, è stato scritto: “meno finanziamenti alla guerra, più fondi all’istruzione”. C’è dunque la percezione che l’intervento dell’Italia sia una guerra mascherata da missione di pace. Cosa si percepisce stando lì?
«Non si va con questo tipo di armamenti così sofisticati nelle missioni di pace. Si chiama missione di pace perché la nostra Costituzione rifiuta la guerra. Noi non dovremmo essere lì se rispettassimo la nostra Costituzione. E poi quando tornano in Italia i caduti si chiamano eroi perché hanno partecipato ad una missione di pace e non possono essere definiti caduti di guerra. E’ tutta un’ipocrisia per coprire gli interventi che noi facciamo all’estero. Si tratta invece di missioni di guerra che a noi costano moltissimi soldi che continuiamo a investire in nuovi armamenti, soldi che potrebbero essere usati per spese sociali nel nostro Paese o per aiutare quei popoli».
Quindi non si tratta solo di uno slogan? Gli studenti e i ricercatori fanno bene a rivendicare queste risorse?
«I giovani fanno benissimo a rivendicare finanziamenti per i servizi sociali e l’istruzione e meno investimenti per la guerra. Siamo uno dei paesi che ha più truppe all’estero. Le azioni umanitarie non si fanno con i carri armati».
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