Ustica, l’inchiesta di una vita

Il 27 giugno 1980 Andrea Purgatori aveva 27 anni. Era un semplice redattore nel più grande giornale italiano, il Corriere della Sera. Quel giorno la strage di Ustica con l’abbattimento del Douglas DC-9 della compagnia Itavia, ha dato una svolta alla sua vita. L’inchiesta su quei fatti, portata avanti per trent’anni con meticolosa costanza ed attento studio, resistendo alle pressioni dei poteri forti, è diventata il paradigma di un genere giornalistico ormai in disuso.

Parlare con Purgatori è  come assistere a una lezione di vero giornalismo: il complesso rapporto con le fonti, il rispetto ricambiato nei confronti della magistratura, il rapporto con gli editori, le tecniche imprescindibili per costruire una buona inchiesta, il confine tra il mestiere di giornalista e quello di autore e scrittore, i limiti delle scuole di giornalismo e uno sguardo sul presente: «Non c’è bisogno di fare delle grandi inchieste, basta essere giornalisti sul campo. Nel sud Italia ci sono precari che per poche centinaia di euro rischiano la pelle cercando di fare il proprio lavoro».

Come è nato il tuo interesse giornalistico per la strage di Ustica?
«Il mio interesse comincia in parte casualmente e in parte perché mi stavo occupando della smilitarizzazione dei controllori del traffico aereo. Era un tema molto delicato, perché i militari dell’aeronautica che volevano diventare civili rischiavano delle conseguenze molto pesanti nel caso in cui fossero stati trovati. Ero riuscito a creare un rapporto stretto con alcune fonti di informazione che si fidavano di me. Per questo si devono coltivare con grande rispetto e attenzione le fonti, dando loro il massimo della fiducia. In questo senso sono contrario al giornalismo mordi e fuggi per cui la fonte viene cannibalizzata, diventando merce da utilizzare senza alcun rispetto».

Il giorno della strage, qual era il tuo ruolo all’interno della redazione del Corriere della Sera?
«Il 27 giugno del 1980 ero ancora un redattore, ma almeno da quattro anni facevo l’inviato dall’Italia e dall’estero. Mi ero occupato dei boat people nel sudest asiatico, ero stato in Tunisia per la rivolta contro Habib Bourguiba e mi occupavo anche di problemi di sicurezza del volo. Fu questo uno dei motivi per cui la strage di Ustica finì tra le mie mani».

In un articolo del 1999 scrivi che, a differenza di altre stragi, l’attenzione su Ustica è stata sempre alta a causa dell’importanza degli interlocutori coinvolti. In quel contesto di pressioni, ma di grande partecipazione, quali sono state le tue fonti? Che rapporto avevi con queste?
«La strage di Ustica è molto diversa dalle altre stragi italiane. I miei interlocutori erano i militari e penetrare quel mondo era difficile, a maggior ragione in un periodo in cui le forze armate erano ancora considerate un universo protetto e chiuso, che non si apriva ai giornali se non attraverso delle veline. Ancora più problematiche le indagini e i rapporti con gli apparati dei servizi segreti italiani e internazionali. Si aggiungano anche le fonti politiche nazionali e non. Da questo punto di vista, c’è una grande differenza tra Ustica e, ad esempio, il periodo della strategia della tensione. Nel secondo caso era chiaro che gli interlocutori dovessero essere gruppi terroristici di estrema destra».

Hai seguito un metodo di lavoro preciso? Come era organizzata la tua giornata in quel periodo?
«La mia fortuna è stata che a cavallo del ’79 e l’80, dopo essermi occupato moltissimo di terrorismo, ho preso un’aspettativa e ho fatto un master in giornalismo alla Columbia University. Qui ho imparato a strutturare le cose che prima riconoscevo soltanto in modo artigianale, perché me le aveva insegnate qualche giornalista più anziano e più capace. L’America è stata importante nella capacità di organizzare un’inchiesta, di programmarla, di fare passo per passo un percorso che ero io a decidere e non gli eventi. In America l’inchiesta e il giornalismo investigativo sono due generi che si insegnano nelle università. Naturalmente non è possibile creare una casistica generalizzata, ma viene insegnato un metodo che soltanto molti anni dopo è arrivato anche in Italia».

Pensi che questa capacità di strutturare un’inchiesta oggi venga insegnata nelle scuole di giornalismo italiane?
«Non credo. Sì, se ne parla, ma l’inchiesta è un genere ormai in disuso, a meno che non si vogliano spacciare per inchiesta quei collage di notizie vecchie con qualche telefonata, condite con un parere o qualche opinione. L’inchiesta è una cosa più complessa, che richiede molto più tempo. E studio. Ad esempio, il collega americano che è stato capace di scovare nei bilanci del Pentagono i fondi neri che servivano per programmi di cui il Congresso non era a conoscenza, ha impiegato da sei a otto mesi per imparare a leggere i bilanci. Esattamente come per la strage di Ustica io ho dovuto imparare il linguaggio dei piloti militari, per essere in grado non solo di leggere le carte, ma anche di fare delle domande che avessero un senso e mettessero in difficoltà i miei interlocutori».

Quali sono gli elementi imprescindibili per un lavoro d’inchiesta lungo e difficile?
«Anche se può sembrare banale, la prima regola da tener sempre presente è cercare non tanto conferme ai propri dubbi o sospetti, ma qualche elemento che li smentisca. Nel senso che, se non c’è nulla che serve da smentita, significa che si è sulla strada giusta. In secondo luogo, bisogna programmare il lavoro, accettare in anticipo che aprire una porta può significare chiuderne altre. Servono scelte precise di programma e di percorso. La differenza sostanziale tra il giornalismo di routine e quello d’inchiesta è che il primo segue i fatti man mano che si verificano, mentre il secondo programma l’indagine sui fatti secondo un percorso studiato a tavolino, che parta dalle fonti e dai materiali secondari per poi arrivare a quelli primari, al cuore dell’inchiesta».

Come è stato il tuo rapporto in quegli anni con l’editore del Corriere della Sera? Sei stato ostacolato o censurato in qualche caso?
«Durante l’inchiesta su Ustica è evidente che le pressioni di chi non voleva che andassi a rovistare in queste vicende sono state molto forti. Ci sono stati direttori che mi hanno sostenuto e altri che hanno avuto più timori ad andare a fondo. Il risultato finale è stato positivo, ma questo ha a che fare non con la censura, ma con l’autocensura dei giornalisti. Ci sono momenti, cioè, in cui il giornalista deve fare una scelta tra i possibili danni collaterali alla carriera e il principio per cui, se si trova una notizia, questa va difesa e pubblicata dopo essere stata naturalmente verificata».

Pensi che il tuo lavoro abbia esercitato una pressione positiva o negativa sulla magistratura? Quali sono stati i rapporti con i magistrati che si sono occupati dell’inchiesta?
«Nel corso dell’inchiesta ho avuto a che fare con molti magistrati, con i quali continuo a darmi del lei. Oggi c’è una tendenza alla vicinanza con le fonti di informazione, non solo con la magistratura ma anche con la politica, che secondo me è estremamente dannosa. Sono stato interrogato almeno una ventina di volte, mi hanno perquisito casa e redazione. Sono stato imputato per violazione del segreto istruttorio, ho pagato anche un’ammenda. In ogni caso i rapporti con la magistratura sono stati improntati al reciproco rispetto: i magistrati più volte hanno lavorato su notizie che trovavo io, o mi chiedevano delle informazioni in merito a cose che avevo scritto, dato che sono diventato quasi una memoria storica di questa strage. Tuttavia fino all’ultimo abbiamo cercato di mantenere quella che dovrebbe essere la giusta distanza tra chi fa informazione e chi fa indagine. Le due cose non vanno mescolate mai».

Come ti ha cambiato la vita l’inchiesta sulla strage di Ustica?
«L’inchiesta su Ustica ha cambiato la mia carriera giornalistica, perché capita soltanto una volta di avere a che fare con un evento così importante. Bisogna però anche avere la capacità e la fortuna di capire l’importanza di un fatto e la necessità di scavare a fondo. È vero probabilmente che quest’inchiesta mi ha fatto diventare quasi un paradigma di come il giornalismo d’inchiesta dovrebbe essere. Tuttavia non faccio fatica a riconoscere che, tra quelli della mia generazione, io sono forse l’unico a non essere diventato né vicedirettore, né direttore di un giornale. Tirando le conclusioni, mi ha fatto molto bene dal punto di vista personale e professionale, ma non ha aiutato la mia carriera».

Fatta oggi l’inchiesta su Ustica sarebbe più facile o più difficile?

«Forse più semplice perché c’è più abitudine a non arrendersi di fronte alle verità ufficiali, mentre nel 1980 il potere si poteva permettere una certa arroganza rispetto a quelle che considerava le proprie verità. Da un altro punto di vista l’informazione oggi in Italia è soggetta a pressioni più forti e non so se ci sarebbe una classe giornalistica capace di resistere fino in fondo, così come hanno fatto, in fin dei conti, giornalisti importanti che sono stati miei direttori, come Alberto Cavallari, Franco Di Bella nonostante lo scandalo P2, Ugo Stille o Ferruccio De Bortoli, che mi hanno sostenuto rimanendo al mio fianco».

Ci sono altre inchieste su cui hai lavorato che hanno segnato la tua carriera?
«Sì, ce ne sono state altre. Ricordo quella su Emanuela Orlandi. Nel 1983 scrissi più o meno le stesse cose che stanno venendo fuori oggi, ma ci fu una reazione molto dura del Vaticano che fu capace di fermare il Corriere della Sera, a mio modo di vedere, sull’orlo della verità. Un’altra inchiesta importante è quella dell’88 sulla mancata perquisizione del covo di Totò Riina, che anticipava non soltanto i nomi ma anche la sostanza di quella che oggi è l’inchiesta della magistratura sulla trattativa tra Stato e mafia. Quell’inchiesta costò un processo al generale Mori e al capitano Ultimo».

Ci sono oggi esempi di buoni giornalisti d’inchiesta a cui potersi ispirare?
«Sicuramente ci sono alcuni colleghi che fanno un ottimo lavoro di giornalismo investigativo. Penso a Carlo Bonini e Giuseppe D’Avanzo su Repubblica, Fiorenza Sarzanini e Giovanni Bianconi al Corriere della Sera, Guido Ruotolo de La Stampa e il fratello Sandro ad Annozero, naturalmente Milena Gabanelli e Fabrizio Gatti su L’Espresso, anche se personalmente sono contro il travestitismo nel giornalismo. Forse potrei citarne altri due o tre ma il problema è che poi mi dovrei fermare, salvo aprire il grande capitolo del precariato. Non c’è bisogno di fare delle grandi inchieste, basta essere giornalisti sul campo. Nel sud Italia, ad esempio, in Campania, Sicilia, Puglia e Calabria ci sono precari che per poche centinaia di euro rischiano la pelle cercando di fare il proprio lavoro. E questo è un altro aspetto completamente ignorato in Italia».

Tu continui a seguire con costanza ogni risvolto della vicenda di Ustica da quasi trent’anni. Oggi invece si tende a parlare solo degli argomenti di moda per qualche mese per poi dimenticarsene. Pensi sia questo il peggior male del giornalismo italiano?

«Intanto credo che nei prossimi mesi avremo delle notizie importanti e positive da poter raccontare su Ustica. È vero, oggi c’è un mordi e fuggi dell’informazione determinato da diversi fattori: la difficoltà di distaccare un giornalista a tempo pieno su un’indagine che non promette risultati certi, in secondo luogo è sempre più difficile per un direttore ritagliarsi spazi di manovra che non contrastino con gli interessi dei propri editori. Ad esempio, se l’azionista di maggioranza di Rcs è il re delle cliniche della Lombardia, credo che ci siano obiettivamente delle difficoltà per il Corriere della Sera nell’occuparsi di sanità. Come per La Stampa di occuparsi di automobili, o il Messaggero di costruzioni. È proprio questo il lato più inquietante dell’informazione italiana».

È un problema quindi di ricattabilità del giornalista da parte dell’editore?
«La maggioranza degli editori in Italia ha interessi nell’informazione utili a sostenere le proprie attività primarie, come la finanza o l’industria. I giornalisti poi sono diventati molto ricattabili e poco protetti, e di conseguenza tendono ad autocensurarsi. A piegare loro la schiena contribuisce anche la politica che non ha il coraggio, o forse l’interesse, di legiferare per impedire ai grandi poteri industriali e finanziari di impossessarsi dell’informazione, cosa che nel resto del mondo non accade».

Adesso fai anche l’autore per il cinema e la tv. Qual è il confine tra questo mestiere e quello del giornalista?
«Continuo ad essere un giornalista anche se scrivo con meno frequenza. Collaboro con la BBC radio ed è per me una fonte di grande piacere, perché ho a che fare con una tradizione giornalistica molto rigorosa ed attenta alla realtà italiana. Scrivo anche per Vanity Fair quando capita. Tuttavia credo che il nostro Paese possa essere raccontato anche nei suoi lati più oscuri attraverso il cinema, i libri e la saggistica. Non si spiegherebbe altrimenti il successo di case editrici come Chiare Lettere o film di grosso impatto sul piano informativo e della memoria. C’è una grande domanda, ma una scarsa offerta di informazione. Quella che circola è malata e piegata ai poteri forti. Non a caso il web assume sempre maggiore importanza».

Non sei d’accordo quindi con chi dice di diffidare dai giornalisti che scrivono libri?
«No, tutt’altro. Credo che scrivere un libro d’inchiesta sia oggi uno dei pochi modi possibili per approfondire una notizia. Ovviamente non tutti i libri sono costruiti secondo quelle che dovrebbero essere le regole dell’informazione, ma molti altri riescono a dare delle risposte che l’informazione classica non riesce, o non vuole, o non può offrire».

Quale inchiesta ti piacerebbe fare oggi?
«Mi piacerebbe riprendere in mano l’inchiesta sulla morte di Emanuela Orlandi. Sarebbe importante anche andare a fondo nell’inchiesta sul caso Marrazzo. Si aprirebbe uno spaccato della vita sociale e politica italiana molto interessante».

*Redattore di Step1, attualmente studente praticante presso la Scuola di giornalismo dell’Università Cattolica di Milano.

Salvo Catalano

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