«Mi sono accorto, a un certo punto della mia carriera, dopo i premi Oscar e i vari riconoscimenti, che mi mancava l’università». Così Vittorio Storaro – il celebre direttore della fotografia di tanti capolavori del cinema – commenta l’assegnazione della laurea honoris causa, con un sorriso affabile e luminoso. È Fabrizio Micari, rettore dell’università, a raccontare questa mattina di quando, circa un anno fa, incontrò per la prima volta uno degli italiani più apprezzati a Hollywood (insieme a Ennio Morricone), e dell’idea che già in quel momento gli balenò sulla possibilità di conferirgli la laurea honoris causa.
Un percorso che giunge a compimento oggi, nella Sala delle Capriate dello Steri, e che culmina con la lectio magistralis di Storaro, che non perde occasione per raccontare di quando vide per la prima volta la Vocazione di San Matteo nella Cappella Contarelli a Roma: era il 1968 e iniziava allora una suggestione sulla luce che lo avrebbe accompagnato negli anni a venire.
La cerimonia reca con sé un messaggio fondamentale: l’importanza della cultura, intesa come scambio proficuo tra professori e laureati, scambio che viene poi portato nel mondo e lì fatto germinare. «I laureati sono la ricchezza dell’Università». A dirlo è proprio il rettore, che durante la cerimonia ha riflettuto su come l’attribuzione della laurea honoris causa sia omaggio per chi la riceve ma anche per chi la conferisce, facendo intendere come questo momento, inquadrato nella cornice che vede Palermo Capitale della Cultura 2018, sia prezioso sia per Storaro che per l’ateneo, che si fregia così di poter annettere fra i suoi laureati una persona che ha sempre vissuto la sua vita all’insegna dell’arte.
Storaro, che riceve questa onorificenza in occasione dei 50 anni di attività, non è un nome o una targa: è un uomo che ha cercato sempre nuovi modi per illuminare e per illuminarci. La luce è per lui una ricerca costante. Luce naturale, artificiale, luce che manca e luce che evidenzia gli stati emotivi dei personaggi. Come non ricordare quella lampada che oscilla ne Il conformista, segno che il protagonista sta cambiando idea sulla sua missione? O i colori de L’ultimo imperatore che accompagnano le tappe emotive e psicologiche della vita dell’ultimo imperatore cinese della dinastia Qing Pu Yi?
Storaro si è sempre definito un narratore, e non a caso la parola fotografia significa letteralmente “scrivere con la luce attraverso un’immagine”, anche se lui preferisce parlare di cinematofotografia, ossia l’applicazione della fotografia a immagini in movimento. La storia che ha scelto di raccontare oggi è quella di un’antica suggestione, un legame con il pittore Caravaggio che lui ritiene sia alla base della sua opera. Durante la lectio magistralis racconta di determinate inquadrature che lo hanno reso famoso, come quella de Il conformista in cui Marcello ritto al centro della scena è per metà lasciato in ombra e per metà illuminato dalla luce violenta del giorno che entra dalla finestra. C’è il Caravaggio della Vocazione, sostiene Storaro, c’è e non può non esserci, da qualche parte nell’intimo della sua memoria.
Storaro ripercorre tutta la vita dell’artista e dei quadri da lui dipinti senza soffermarsi molto su di sé, in modo umile e appassionato. «A mia conoscenza» è una frase che gli si sente dire spesso, perché non pretende di insegnare ma cerca solo di suggerire, di far riflettere. Parla di passione e della necessità di sapere aspettare ma anche di lottare mentre si aspetta. Come poteva immaginare il giovane Vittorio del ’68, folgorato da una sensazione che lo avrebbe accompagnato per una vita, che la sua carriera sarebbe stata brillante? «Molte volte certe cose non accadono subito, ma vanno desiderate, vanno amate. Bisogna amare e desiderare di realizzare i propri sogni». Ci sarebbe da chiedersi: e adesso, dopo la “laurea”, che cosa farà un artista del genere?
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