Unict, quattro aspiranti rettori a confronto «Autonomia e qualità per salvare l’Ateneo»

«Riforma dell’Università e Statuto dell’Ateneo catanese». Questo il titolo del confronto a cui, ieri pomeriggio nell’aula 1 del dipartimento di Scienze giuridiche, hanno preso parte i quattro aspiranti candidati a succedere al rettore uscente Antonino Recca dopo le elezioni di febbraio 2013. A confrontarsi – minutati e moderati dal prof. Bruno Montanari – sono stati infatti Enrico Iachello, Giacomo Pignataro, Giuseppe Vecchio e Vittorio Calabrese. Tanti i temi trattati durante l’incontro – alla fine del quale non era previsto dibattito – tutti inerenti la nuova carta costituzionale universitaria introdotta dal ddl 240/2010, comunemente nota come riforma Gelmini, entrata in vigore da quest’anno accademico. E dove i partecipanti, aiutati dalla domande del moderatore, hanno discusso di regole, autonomia, gestione amministrativa e dipartimenti, trattati da ognuno dal punto di vista del loro futuro programma elettorale.

Nella prima parte del confronto, ad emergere sono state sopratutto le criticità della riforma, inerenti alla gestione dei dipartimenti, megastrutture didattiche che, da quest’anno, sostituiscono le facoltà. Tanti i punti in comune individuati dagli aspiranti rettori per risolvere i problemi. Si è parlato, ad esempio, di instaurare più cooperazione tra vertice e strutture dipartimentali, ma anche di più autonomia per i singoli dipartimenti nella gestione delle proprie risorse, ma anche di didattica e ricerca. Per poi passare alla necessità, condivisa da tutti, di approntare nuovi progetti per il reperimento di fondi da destinare sempre a didattica e ricerca, elementi su cui si devono puntare la maggior parte delle energie, ma anche per aumentare la qualità dell’offerta formativa, innestando anche nuove competenze in ambito amministrativo e non solo (ad esempio, rivedendo il ruolo delle segreterie). Tutti elementi che, però, si contrappongono alle strategie di tagli, razionalizzazione e contenimento dei costi, imposti dalle politiche di governo degli ultimi anni, che, aggravate dalla crisi, hanno messo in ginocchio l’università italiana. Sopratutto al Sud.

Quali soluzioni? A questo è servita la seconda parte del confronto, dedicata a proposte e vie d’uscita. Qui, ogni aspirante magnifico – la cui candidatura verrà ufficializzata solo dopo il via libera del Decano – ha avuto a sua disposizione dieci minuti per spiegare in breve, il proprio programma con cui eleborare una strategia di governo per risollevare le sorti dell’univesità di Catania. Il primo a prendere la parola è stato Vittorio Calabrese, ordinario di Biochimica clinica al dipartimento etneo di Medicina. Secondo cui il segreto sta nell’interdisciplinarietà virtuosa e concreta. Creare una «tecnostruttura» in cui i dipartimenti, e la loro autonomia, devono avere un ruolo centrale. «Ogni dipartimento – spiega il docente – deve essere libero di gestirsi in autonomia, nella maniera più conveniete per gli studenti». Qualche esempio? Biblioteche «aperte da mattina a sera» e consulenze interne «sfruttando le nostre competenze, affidando, per dirne una, al dipartimento di giurisprudenza tutte le questioni giuridiche che riguardano l’ateneo». E puntare sulla Scuola superiore, istituto di eccellenza universitaria, da trasformare nelle «culla per un’International School of Law», conclude Calabrese.

Autonomia e qualità sono i punti chiava anche per Pippo Vecchio, ex preside della facoltà di Scienze poilitiche. «Il cuore della concezione universitaria – sottolinea il docente – sta nella sua indipendenza, nell’autogoverno, nella resistenza ai poteri pubblici». Il motivo, secondo Vecchio, risiede nel suo essere «un’istituzione più pubblica dello Stato». «Una condizione che ci impone maggiore rigore nelle gestione delle risorse che riceviamo, senza abbassare la testa davanti a quanto impongono i poteri politici». Fondi da destinare ad attività rivolte principalmete agli studenti, fulcro dell’università, scommettendo «sull’originalità offerta formativa». Autonomia e indipendenza, quindi a cui, insiste il docente, «si deve aggiungere la necessità di rinnovare un patto con la società nell’interesse degli studenti in primis, ma anche di didattica e gestione di risorse sociali ed economiche».

«La partita che stiamo giocando oggi – afferma Enrico Iachello, ordinario di Storia moderna e preside della ex facoltà di Lettere – è quella di ridefinire il nostro ruolo come sistema universitario». A cui, chi ne fa parte, deve essere in grado di dare un contributo in prima persona. Cosa che fin’ora, a suo dire, non è stata fatta. «Da Berlinguer in poi abbiamo subito riforme, ma mai avanzato proposte di autoriforma. E abbiamo perso il confronto con il territorio». Quest’ultimo, elemento fondamentale a detta del docente. Si cui si deve puntare per produrre sviluppo ed aumentare la qualità dell’offerta. Anche di servizi. Uscendo dalle mere logiche burocratiche. «La crisi – afferma – azzera prestigio e storia, per batterla dobbiamo elevare il livello ed eccellenza, da ridefinire nel metodo». Per non diventare un ateneo di serie b. «Per non essere marginalizzati e contribuire alla crescita della nostra città servono proposte innovative per ridefinire la didattica e i progetti di ricerca», sottolinea. Un esempio? «Far gestire i siti archeologici dai dipartimenti che ne hanno le competenze», propone Iachello.

Secondo Giacomo Pignataro, ordinario di Scienze delle finanze al dipartimento di Economia, il poblema poggia le basi sulla carenza di risorse finanziarie, che nuocciono a didattica e servizi. «I nostri studenti – sottolinea il docente – non hanno più fiducia verso l’università ed emigrano verso altri atenei». Bisogna quindi «riassettare il sistema e ridefinire gli equilibri interni», puntanto, anche a suo avviso, su aumento della qualità e miglioramento del sistema di reperimento fondi. Partendo dal lavoro dei dipartimenti. Per rendere Unict più attraente per iscritti e finanziamenti. Come? Il suo modello di gestione, ad esempio, propone di «individuare linee importanti di ricerca su cui investire per crescere, con progetti supportati da competenze”, in base a cui non contano il numero o i confini deli dipartimenti oppure ancora le aree tematiche. Il tutto, «coodinandosi con le singole strutture per offrire servizi che fino ad oggi non abbiamo avuto», spiega. E innescando, da qui ai prossimi sei anni, «un meccanismo di governo nuovo, che riconosca l’autonomia dei dipartimenti non come feticcio, ma perché è da lì che parte l’intero progetto, trovando un equilibrio nella gestione», conclude. Per uscire definitivamente dalla «trappola della povertà».

[Foto di evanforester]

Perla Maria Gubernale

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