Una gioiosa macchina da guerra

Era la notte del 13 maggio e l’ammiraglio Gianni Battaglia, capo di stato maggiore delle forze unioniste e comandante supremo delle dissolvende brigate diessine, non riusciva a prendere sonno. Stava inzuppando il pigiama di seta rossa dei suoi stilisti preferiti, Iano & Gurrieri, i Dolce & Gabbana dei declivi iblei. Aveva fatto un sogno terribile. Lui, seduto da solo in disparte e attorno tanta gente che conosceva bene. Stava tra di loro ma nessuno avvertiva la sua presenza: puro spirito, insomma, come a Palazzo Madama. Alzandosi guardò l’orologio. Erano le 3 del mattino e gli ci volle un bel po’ per calmarsi. Bevve un bicchiere d’acqua e, non riuscendo ad addormentarsi, pensò a chi poteva telefonare a quell’ora. Decise di chiamare il sindaco di Comiso. Non che gli fosse particolarmente simpatico, Pippo Bonaparte detto Di Giacomo, ma era l’unico, tra i suoi conoscenti, a rimanere sveglio la notte per il rimorso delle cazzate che sparava di giorno. Napoleone non era in casa. Al suo posto un messaggio della segreteria: “Sono la segreteria telefonica del sindaco Di Giacomo. L’Imperatore non è in casa, quindi vi prego di aiutarmi. Liberatemi! Non ce la faccio più. Qualsiasi cosa, un lavoro, sono disposta anche a battere il marciapiede pur di non…” L’ammiraglio riattaccò infastidito. Poi si ricordò: Di Giacomo era stato chiamato a Messina.

Da quando si cimentava nella nuova sua attività era sempre in giro, e adesso, reclamato a gran voce, senza por tempo in mezzo era corso nella città dello stretto dove c’era un’opera – un ponte che non c’era – che attendeva di essere inaugurata. Battaglia accennò un sorriso, ma era un riso amaro il suo. Lo stesso che probabilmente era balenato sul viso del vero Napoleone alla vigilia dello scontro fra le sue truppe e gli eserciti della settima coalizione in quel di Waterloo, oppure su quello del console Gaio Flaminio prima della disfatta subita ad opera dell’esercito di Annibale nel corso della seconda guerra punica. O ancora, sul viso del ten. gen. Badoglio a Caporetto o su quello del generale Graziani a Beda Fomm o dell’ufficiale germanico Stumme al comando delle truppe dell’Asse a El Alamein. Era come un presentimento foriero di cattivi auspici. Eppure alla vigilia delle elezioni nulla era stato lasciato al caso. Il consiglio di guerra degli eserciti unionisti aveva escogitato la gran strategia: scartata l’ipotesi unitaria dello scontro frontale per rischiare tutto in una battaglia, aveva disposto gli uomini in modo da accerchiare il nemico attaccandolo e disorientandolo dai quattro punti cardinali, con altrettanti candidati e tattica convergente. Una strategia invincibile che poche ore dopo avrebbe tuttavia rivelato la sua tragica inconsistenza.
 
Allorché nell’incerta luce dell’alba del 13 maggio l’ammiraglio avvistò le insegne del principe Franco Antoci, uomo assai potente ma che non conta niente, non si rese conto che gli stava piombando addosso il grosso dell’esercito della Cosca delle libertà. Con cavalleresco senso dell’onore, l’ammiraglio non ripeté la vicenda di Ettore che or nelle prime file, or nell’estreme comparìa, dando per tutto Provvidenza e comandi; e tutta d’arme rilucea la persona. Pensò bene di ammainare le insegne e portarsi in salvo con la fuga. Due giorni dopo, lo spettacolo delle forze unioniste era quello di un esercito in rotta le cui armate erravano sbandate tra le alture iblee.

Fuor di metafora: un disastro senza precedenti, con le avverse truppe che senza merito alcuno raccoglievano su tutti i fronti ringraziando. Pochi i sopravvissuti allo sterminio tra i reparti unionisti: quattro gatti eletti qua e là, a cui era mancato financo il senso d’onore dello Spartiate che, scampato al massacro delle Termopili, si suicidava per la vergogna di essere rimasto in vita. D’altronde onore e dignità, di questi tempi, non han costume di dimorare nella casta degli unionisti. Impegnata esclusivamente a non apparir troppo diversa dagli altri, identiche le orazioni, identica la miseria di idee e la soggezione ai forti, senza coscienza civile e senza storia, l’esistenza di quella schiatta si trascinava al ritmo lento di un funerale. Guai a perdere quel pezzetto di potere personale, guai a interrompere ricevimenti, celebrazioni e affari con i compagni di rinfresco o di cosca. Niente gogne di speculatori, roghi di affaristi, esecuzioni di faccendieri. Per il resto lotte per ogni briciola da raccattare a terra, guerre per ogni tozzo di potestà, sullo sfondo dello scintillante scorrere di un inarrestabile nulla.

Si cannibalizzavano persino i sindaci propri e ci si apprestava a perdere financo le roccaforti di Comiso e Scicli, città già un tempo corti del progressismo, che si stavano disponendo, nella beata cecità dei loro dignitari, a subire l’infausto destino: il dover essere sodomizzate dalle armate di destra. Le quali armate raccogliendo il frutto dall’albero basso, bandivano la tavola e si ritrovavano per procedere alla ricca spartizione della refurtiva. Erano all’uopo convenuti da ogni parte del regno. C’erano Leontini, Mauro e Incardona in rappresentanza dei politici. C’erano Cugnata, Santoro e Pelligra in rappresentanza di se stessi. C’erano Peppe e Carmelo in rappresentanza della famiglia Drago. C’erano Nino e Riccardo in rappresentanza della famiglia Minardo. C’erano Tuccio Battaglia e Gino Calvo in rappresentanza della famiglia Addams. C’erano tutti, mandibole a briglie sciolte, pronti a divorare, ingurgitare, ingoiare, trangugiare, ingollare fino all’ultima scaglia dell’ospital banchetto.

L’ammiraglio Gianni Battaglia si svegliò nel letto del suo dorato esilio romano e rise. Ripensava ai giorni della passata bufera e, anziché piangere il perduto Ettore, rideva di cuore. Rideva pensando all’ingenuità della gente. Alla fortuna sua di appartenere a uno dei due soli partiti reali: i Vincenti. Pensava poi agli altri partiti – immaginari – a cui la gente ha sempre rivendicato la sua appartenenza. Nomi strani: Margherite, Rose, Udc, Forzitalie, Alleanze, Unioni, Rifondazioni. Partiti tutti capeggiati dai Vincenti. Quando tutti questi partiti – pensava l’ammiraglio sogghignando – si sfidano, sono i Vincenti a vincere. I Perdenti possono iscriversi ai partiti immaginari. I Perdenti possono votare. L’ammiraglio si alzò, rise di gusto e andò incontro alla giornata che fuori frettolosa lo attendeva.

Redazione Step1

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