Un Urlo beat sul grande schermo

Dobbiamo andare e non fermarci finchè siamo arrivati. – Dove andiamo? Non lo so, ma dobbiamo andare. E’ uno dei dialoghi più frequenti in un romanzo Beat. Piede sull’acceleratore da una costa all’altra degli Stati Uniti, alcool, droga e promiscuità sessuale. Corsa che negli anni ’50 la critica benpensante della società americana fece presto a definire fuga. Manifesto di questa generazione è “Urlo”, poema scritto da Allen Ginsberg nel 1955 e riadattato per il grande schermo da Rob Epstein e Jeffrey Friedman, nelle sale italiane dal 27 agosto.

Ho visto le migliori menti della mia generazione distrutte dalla follia, affamate in una nudità isterica, trascinarsi all’alba per le strade negre in cerca di droga rabbiosa... Così iniziano il film e il poema di Ginsberg che lui stesso recita a S. Francisco alla Six Gallery nel 1955. Nella sala gremita, centinaia di giovani si esaltano ascoltando questo ululato che ha l’incedere del jazz e accompagna come un sottofondo l’intero film. Tra loro anche Jack Kerouac e Neil Cassady, protagonisti di queste avventure, ma anche voci di questa generazione bruciata. Il film, presentato al Sundance 2010 e in concorso alla 60° edizione del festival di Berlino, si snoda su tre piani paralleli. Da un lato, la continua narrazione del poema a cui dà colore il fluire di immagini di animazione surreali e psichedeliche. Dall’altro, il processo a “Urlo” per oscenità. Dietro il banco degli imputati siede Lawrence Ferlinghetti, l’editore che pubblicò il poema. Segue un alternarsi di accusa e difesa, un disquisire sull’arte, sul suo valore sociale e la sua forma. Le voci sembrano due: un pubblico ministero (interpretato da David Strathairn) che arrossisce leggendo i versi sotto accusa davanti al giudice Clayton Horn (Bob Balaban) e che chiama a testimoniare illustri professori dei College americani. Sul fronte opposto, un difensore Jake Ehrlich (John Hamm) che si appella alla libertà di espressione. Intanto, il poeta di Paterson (New Jersey), interpretato da James Franco, sposta nervosamente le tendine della sua finestra, con lo sguardo spaventato di chi si sente sotto assedio. Mette sui fornelli un thé e racconta ad un giornalista la genesi del suo lavoro: Il mio primo pensiero è stato: cosa penserà mio padre di quello che scrivo? In quelle strofe crude ed esplicite c’è tutta la paura di un ragazzo che si scopre omosessuale e che chiude dietro di sé le porte di un ospedale psichiatrico grazie alla promessa fatta ai medici di diventare eterosessuale.

Più che una fuga la loro è una ricerca. Giovani che non vogliono restare fermi, con una racchetta da tennis in mano e l’iscrizione in un prestigioso college americano. Tentano di rimettere insieme i pezzi di un realtà in frantumi, quella della società postbellica, aggrappandosi ad un ideale di vita libero da qualsiasi pregiudizio o valore morale. E’ il loro misticismo a creare una grande differenza tra la beat e la lost generation, scrive Fernanda Pivano, nel 1958, nella postfazione di “On the road” di Kerouac, pubblicato ad un anno di distanza da “Urlo” e presto nelle sale cinematografiche. Non so cosa resterà delle mie parole fra cento anni, confessa Ginsberg. D’altronde cos’è una profezia? Non è sapere che nel 1980 lanceranno una bomba, ma sentire adesso quello che altri giovani come me sentiranno fra cento anni. E’ allo stesso autore, dunque, che viene affidata l’apologia della sua opera. Niente toghe o codici, Ginsberg dal suo divano, conclude l’intervista e il giudice si pronuncia: Urlo non ha un contenuto osceno. Custodisce un messaggio sociale ed ha un valore che una società libera come quella americana, non può soffocare.
Il film prodotto da Fandango, accolto con successo dal pubblico statunitense, lascia deserte le sale italiane, con incassi che nel primo weekend non superano i 37 mila euro. Questo, probabilmente, perchè la nostra penisola è stata contagiata dal pensiero beat per un breve periodo. Fernanda Pivano fu il solo che negli anni ’60 ospitò a Milano i poeti americani e tradusse le loro opere, lasciando però scarse tracce nella nostra letteratura e nella nostre cultura.
Cos’è la beat generation? chiede infine il giornalista. La beat generation non esiste, è solo un branco di ragazzi che vuole farsi pubblicare, commenta cinico Ginsberg. Forse la generazione beat non esiste, ma la loro fu una vera rivoluzione.

Flavia Musumeci

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