Sono sempre stata goffa ed impacciata, la nemesi di qualunque attività fisica che non fosse salire e scendere dal letto, sedersi e alzarsi dal divano. Ma c’è uno sport nel quale sono imbattibile. Di questo sport qua dovrebbero farci le olimpiadi, e io le vincerei. Mica come rappresentante dell’Italia, come rappresentante dell’universo conosciuto e pure di quello ignoto.
Sono campionessa intergalattica di lamentele. Me lo dice sempre mia madre: «Come ti lamenti tu nessuno mai!».
E ne vado fiera, altro che.
Mia madre no, lei dice che dovrei smetterla di lamentarmi e darmi verso. «Datti verso», dice proprio così. Che non è proprio italiano dell’Accademia della Crusca, ma cosa significa lo sappiamo tutti.
Mia madre ha cinquant’anni passati, fa la casalinga e mi dice di darmi verso, di sbrigarmi con la laurea, di sbrigarmi col lavoro, di sbrigarmi con la vita, di sbrigarmi con tutto. Solo per il matrimonio dovrei aspettare, ché prima deve finire il corredo di mia sorella.
Io, quando mia madre comincia a farmi fretta, la guardo esasperata: «Oh, ma ti svegli? Sono in regola con le materie, mi faccio un mazzo così per mantenere la borsa di studio, se mi servono soldi, invece di chiederteli, mi faccio in quattro per guadagnarmeli da sola, e lavoro per Step1».
A questo punto del mio discorso, scatta la risata registrata. Quella automatica che i registi mettono dopo le battute che non fanno ridere, o gli editoriali di Minzolini.
Io non capisco dove stia la parte divertente, e mia madre, donna sicula e genitrice affettuosa, me lo spiega immediatamente: «Sì, come no?, lavori. Tu e ‘sta testa pazza che ti ritrovi. Vuoi scrivere! Ma prendi una penna e scrivi, che puoi fare più di questo?».
Dev’essere imbucato da qualche parte nel manuale della mamma perfetta: “se hai una figlia che non vuole fare l’impiegata statale, ridicolizza le sue ambizioni”.
Con me non ci riesce e, siccome sono più testarda di lei, mi lamento. E lo faccio di proposito, in sua presenza, sapendo che lei girerà gli occhi e mi implorerà di tacere, perché la cosa non le interessa.
«Mamma, hai sentito l’ultima? In pratica c’è che Lombardo, Raffaele Lombardo, quello che suo figlio era a scuola con me e faceva il rappresentante d’istituto, pare che sia indagato per concorso esterno in associazione mafiosa. Cioè, mamma, ti rendi conto? E l’hai visto il telegiornale, quello regionale, come ne parlavano? La giornalista – quella figa che mi sta sui cosiddetti per duemilioni e mezzo di ragioni – faceva prima a presentare il servizio dicendo: “E adesso la parola alla difesa”. Capisci? Ridicolo».
A mia madre non interessa che abitiamo in una città in cui le bollette della luce non si pagano perché non ci sono soldi e si accendono i lampioni a quartieri alterni (che è come le targhe, solo ancora più ecologico), non gliene importa niente di parcheggi che diventano centri commerciali all’aperto, di cantieri sempiterni che neanche la Salerno Reggio-Calabria, di laboratori universitari su cui pende il dubbio che sai come entri ma non sai come esci, di forze dell’ordine che la mattina all’alba sottolineano, coi manganelli, che un centro sociale che fa doposcuola ai bambini è una cosa brutta e cattiva. Mia madre trova che non la riguardi nemmeno il fatto che quell’ambizione che io difendo con i denti (le unghie no, quelle me le mangio) sia assolutamente irrealizzabile, in questa Catania in cui giornalismo significa quasi sempre Mario Ciancio Sanfilippo.
Mia madre non mi sopporta, quando mi lamento per queste e per miliardi di altre cose. Perché Catania di ragioni per lamentarsi ne ha a bizzeffe, non devi neanche cercarle, ti si parano davanti, nella loro triste e deprimente evidenza.
«Catania è una città meravigliosa»: è il mio mantra. Me lo ripeto di continuo, quando non sono troppo impegnata a lamentarmi. Dicono che si chiami autoconvincimento.
Con mia madre, che ha cinquant’anni passati, l’autoconvincimento deve aver funzionato molto tempo fa.
Io, però, non sono sicura che voglio sia lo stesso per me. Anzi, non voglio affatto che sia lo stesso per me. Voglio continuare a guardarmi intorno e a provare fastidio per quello che vedo, ad odiare questa città con tutto il cuore, perché l’amo con tutto il cuore. E perché ho un pensiero comunista che mi frulla in testa da tanto: se io mi arrabbio e si arrabbia anche la mia collega e si arrabbia pure l’amico della mia collega allora finisce che non è una rabbia isolata, è una rabbia collettiva. E la rabbia collettiva può fare un sacco di bene a questo posto qui. Può svegliarlo dal suo dormiveglia, può scuoterlo dalle fondamenta, badando a non farlo crollare.
Non è un processo veloce, né visibile. È quasi impercettibile, a dirla tutta. Ma è lì, è un tarlo.
È quel “melior de cinere surgo” inciso da qualche parte tra il petto e lo stomaco dei catanesi. L’anima? Quale anima? L’anima l’abbiamo venduta tempo fa per un paio di rotonde alla circonvallazione, due o tre aiuole in centro, e la pavimentazione nuova di via Etnea.
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